Un anno in Australia alla Nba Academy, uno a Evansville e ora il salto a Xavier, con la speranza di chiudere il cerchio e arrivare nell’Nba quella vera. Gabriel Pozzato ha le idee chiare e tanta voglia di lavorare: è già a Cincinnati ad allenarsi con la nuova squadra e alle vacanze ci penserà un’altra estate.
Non ha un ruolo preciso e neanche vuole averlo il ragazzo classe 2005 nato a Casale Monferrato che, tra i giovani italiani, è senz’altro quello con lo stile di gioco più americano. Ecco il suo racconto di un percorso insolito che dal Piemonte lo ha portato in Ohio, tra regole che nessuno rispetta in un transfer portal ormai fuori controllo.
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Il tuo viaggio americano parte in realtà dall’Australia, da una telefonata mentre eri in classe.
La mia vita è cambiata lì, quando sono andato in Australia. Ero in classe a scuola in Italia, a Novara, stavo facendo lezione e mi dicono di andare su in segreteria e mio padre mi dice che dobbiamo andare a fare un meeting. Entriamo in una call con quello che adesso è il mio agente che mi dice ‘fra una settimana andiamo in Australia’. Non conoscevo l’Nba Academy ma ho detto a mia madre: questo è quello che voglio fare. Pensavo di fare l’ultimo anno del liceo in America e Invece sono andato a Canberra ed è stato un anno e mezzo diverso, fatto di basket, basket, solo basket fino alla sera. Sveglia alla mattina e basket, poi lezioni on line, poi dopo pranzo basket, poi recupero, con sessioni di pesi prima dell’allenamento, non dopo. E’ stato un anno duro ma molto, molto utile, un’esperienza che rifarei assolutamente. Mi ha fatto migliorare e crescere come giocatore di basket e come persona.
Dopo l’Academy non hai mai pensato di tornare in Italia?
Mi sarei visto giocare in Italia, ma il mio stile di gioco è sempre stato americano. Attacco il canestro e schiaccio, palleggio, step back e tripla. Alcuni coach non l’hanno apprezzato in Italia, ma ad altri andava bene e comunque l’America è sempre stato un obiettivo. Guardavo Kobe Bryant e pensavo: io voglio giocare lì, voglio andare in America e giocarmi le mie carte e vedere come va.
Come sei arrivato a Evansville, università privata dell’Indiana?
Dopo l’Academy avevo un bel po’ di offerte, da Campbell a Radford a Pepperdine, praticamente tutte mid major, anche Unlv era molto interessata ma sono finito a Evansville perché mi avevano assicurato il tempo di gioco in campo, mi serviva per mostrare il mio talento, per far vedere quello che potevo fare.
E di minuti con i Purple Aces ne hai avuti tanti, 35′ in campo con 15 punti di media e la nomina nel Missouri Valley Conference All-Freshman Team
Mi sono trovato molto bene in Indiana, tutti mi dicevano ‘vai in uno stato dove è basket puro’ e allora mi sono rimboccato le maniche e mi sono giocato le mie carte. Una volta che ho iniziato la stagione, mi sono messo in testa di non pensare al transfer portal, pensavo a fare il mio lavoro, al presente. Io sarei potuto rimanere anche là, però dopo i traguardi che ho raggiunto, mi si sono aperte tante porte.
E dopo il recruiting in entrata nel college, hai sperimentato il transfer portal. Quali differenze ci sono tra i due processi?
Approcci simili ma diversi: un giocatore internazionale non è negli Stati Uniti e quindi le università non riescono a vederti di persona e ti conoscono meno. Quando ero all’Nba Academy c’era interesse e pressione, ma niente in confronto al transfer portal. La mia agenzia mi ha detto che avrebbe messo tre persone solo su di me perché sarebbe stata una cosa ingestibile. E infatti lo è stato. Anche dopo il mio commitment a Xavier, le squadre hanno continuato a chiamarmi direttamente infrangendo le regole. Sta diventando una roba anche impensabile, siamo arrivati al punto che c’è un transfer portal per i coach, ed è un problema soprattutto per le mid major che vedono andare via i giocatori anche dopo una stagione non dico buona, ma anche solo buonina. C’è chi lo fa per soldi, chi lo fa per altro, poi ovviamente il Nil ha una parte molto importante. Mi sono arrivate davvero molte offerte, alcune le abbiamo dovute proprio escludere, non rispondevamo proprio. E’ stato un duro lavoro per i miei agenti, perché ogni giorno arrivavano 20-25 chiamate se non di più.
Quindi ci stai dicendo che si crea un vorticoso giro di chiamate in cui tutti chiamano tutti?
E’ così, è un casino, impressionante. Appena si apre il transfer portal, il primo obiettivo delle squadre sono i giocatori dentro al portal che vengono prima degli internazionali. Ai coach americani interessa più prendere un giocatore nel portal, rischiano di meno, lo conoscono meglio, perchè guardano molte cose, come ti atteggi, come ti muovi, e ovviamente è più facile con chi gioca in America.
Dicci qualche nome di college interessati a te
Adesso non me li ricordo tutti ma, oltre a Xavier, ho visitato Santa Clara, sono stato in contatto con John Calipari, con Kentucky, BYU era molto interessata…
Potevi giocare con AJ Dybantsa
Eh, quello è il punto: andare a giocare con AJ Dybantsa o andare a veder giocare AJ Dybantsa. Quello è un po’ il trick: fanno un po’ di tutto per prenderti, un coach ti chiama, ti dice giochi 40’, questo e quello, ma bisogna essere un po’ realistici. Magari era pure vero, non faccio nomi ma mi è stato detto che sarei stato uno dei top 3 titolari a BYU. Avrei preso il posto di Egor Demin e saremmo stati io, AJ e il centro. Però diciamo che anche con l’aiuto di agenzie come la mia, si realizzano i modi, la frequenza con cui ti contattano, quanto sono interessati veramente. E comunque non è finita, appena sono atterrato per visitare Santa Clara, mi ha chiamato Virginia, poi mentre stavo facendo la visita al campus mi ha chiamato l’assistant coach di Calipari…
C’è da diventare pazzi, quindi, praticamente stai valutando un posto e ne hai altri 5 in testa. Come ha vinto Xavier alla fine?
La scelta finale era tra Santa Clara e Xavier perchè volevo andare in una scuola dove avrei avuto minutaggio assicurato. Per scegliere un college devi andare a vederlo, capire come ti parlano. L’head coach di Santa Clara è stato diretto, super gentile, l’ho adorato ed ero molto indeciso: stavo per andare a Santa Clara e poi in una settimana ho cambiato idea. A Xavier c’era un coaching staff tutto nuovo, ma dalla California mi hanno fatto volare a Cincinnati già il secondo giorno che erano qua. Erano molto in contatto con il mio agente, hanno mostrato molto interesse, e questo ha vinto alla fine.

Gabriel Pozzato a Xavier
E in tutto questo ci sono anche i soldi: come si fa a scegliere un college quando ti può arrivare dieci minuti dopo un’altra offerta più alta e poi ancora un’altra?
I soldi giocano certamente un ruolo molto importante, ma io in tutta sincerità non gioco per soldi. Sono importanti ma non sono andato via di casa a 17 anni per arrivare al college e fare i soldi. Sono andato via di casa per andare in Nba e rimanerci. Per molti giocatori è importante, ne ho conosciuti che arrivano dal nulla, che erano nella Naia, poi in D II poi arrivano in D I e appena arriva un’offerta diciamo di 300-400mila dollari dicono vado lì e aiuto la mia famiglia, son cose che capisco.
C’è qualche accordo particolare nel tuo Nil?
Ora come ora, non c’è ancora niente di particolare, ma il Nil è fuori controllo. Dopo il commitment con Xavier, e tutti sapevano che avevo firmato con Xavier, una scuola ha chiamato il mio ex coaching staff. Incontro per caso il mio coach di Evansville e mi dice ‘oh ma sai di quella scuola che ci ha chiamato per te?’. Ma no coach, gli ho risposto io, vado a Xavier. ‘E sai volevano darti un milione’. Io non gioco per soldi come ho detto, gioco per arrivare al mio obiettivo finale che è l’Nba, però è fuori controllo, una cosa impressionante.
Torniamo a Xavier dove, chiusa l’epoca Sean Miller, il nuovo coach è un nome importante come Richard Pitino
Ha giocato un fattore molto importante nella scelta, mi ha dato le sensazioni di un coach di cui ho bisogno in questo momento. Se ne frega, ma nello stesso tempo ci tiene un sacco. Mi spiego: non gliene frega niente se sbagli un tiro, si arrabbia se sbagli un tiro e torni indietro camminando in difesa. Se invece sbagli un tiro, torni in difesa e stoppi l’avversario, lui viene lì, ti dà una pacca sul culo e ti incoraggia. Sono cose che per me contano, ho bisogno di un allenatore che mi sproni in questo modo
Pitino è sempre sinonimo di intensità, come ti vedi in questa nuova Xavier?
Quando mi ha fatto vedere dei video sul playing style, ho pensato ‘io mi ci vedo a giocare in quello stile’, prendere palla e andare coast to coast. Lo stile americano è molto comodo e adatto al mio, sicuramente il ruolo del coach è stato molto importante. Gliel’ho detto diretto: ‘io vengo qua per giocare, per farmi il culo, allenarmi tutti i giorni, fare extra lavoro e farti vincere’. E lui mi ha detto: ‘per quello che ho visto nella tua stagione a Evansville, per me sei nello starting five. Poi se fra 4 mesi fai schifo, io non ti faccio iniziare’. E’ quello che dicevo prima, è quello che mi ha convinto a venire a Xavier, io ho bisogno di questo, ho bisogno di challenge.

La grinta di Richard Pitino
Difficile dare ora invece un giudizio sulla squadra che è completamente nuova, di certo sei arrivato in una super conference come la Big East
La Big East ha giocato un ruolo molto importante, è uno stage molto importante. Quando ho parlato con coach Pitino è stato molto interessante, il nostro sistema di gioco sarà molto incentrato sul run and gun, è molto veloce, pochi schemi, e quindi penso faremo molto bene. Certo, siamo una squadra completamente nuova e questo non sarà d’aiuto, ma sono qua nel campus tre settimane dopo la fine della scuola a Evansville e ci sono con me già cinque miei compagni di squadra. Il resto arriverà la prossima settimana e inizieremo subito ad allenarci insieme. Siamo una squadra molto giovane, molto atletica e molto forte tecnicamente.
Un atleta: è questa la definizione più comune per te. Ti descrive bene o c’è anche altro?
C’è altro, anche se c’è tanto da migliorare e non sono felice del giocatore che sono adesso. Mi definiscono un atleta da quando giocavo a Borgomanero e poi all’Academy anche perché posto sui social le schiacciate e cose così, però dietro c’è un gran lavoro. Non mi sentirò un giocatore completo finchè non potrò dire di essere una 6′ 7 point guard che può andare in post o può muovere la palla. Quando riuscirò a essere un giocatore completo che porta su palla comodamente, una true point guard con la mia altezza e il mio atletismo, allora sì che potrò dire di essere un giocatore completo e felice con me stesso. Adesso il basket sta cambiando molto e sta diventando positionless: io sono alto due metri, ho 2.15 di wingspan, devo saper difendere su tutti, dalla point guard al centro. Tanti coach mi hanno detto che ho un dono che è il mio fisico, il mio atletismo, e che devo usarlo ma non solo in attacco.

L’atletismo di Gabriel Pozzato
Quali sono i tuoi obiettivi?
Quest’anno in Big East, dominare. E l’anno prossimo Nba. Sicuramente proverò a test the waters (cioè sondare il terreno con gli scout Nba), poi vediamo. Non mi sento ancora un giocatore completo, quando mi sentirò un giocatore completo, dirò sì, è ora di andare in Nba. Nella mia testa so che ci posso arrivare, so che ci arriverò ma dipende tutto da come lavoro. Anche la parte fisica è molto importante, non siamo più nella Missoury Valley, siamo in Big East, le guardie hanno braccia così, i centri con una spallata ti mandano a metà campo e per questo sono già in palestra tutti i giorni e mangio come un dannato. L’obiettivo è andare in Nba, io gioco a basket per andare in Nba e rimanerci. L’Eurolega è comunque un’opzione, io voglio concentrarmi sul presente e su quello che devo fare adesso. L’Eurolega sarà una buona opzione ma ora come ora voglio giocare in Nba
Hai giocato già con le nazionali azzurre, vi tengono d’occhio o vi perdono quando andate in America?
Sono stato in contatto con lo staff della Nazionale, ho parlato con Pozzecco soprattutto quando ero in Australia. Certo, l’interesse maggiore è per chi è in Italia o in Europa ma poi, se un giocatore è voluto e necessario, bisogna andarlo a prendere. Certo, stare negli Usa non aiuta tantissimo ma allo stesso tempo se uno vuole un giocatore, lo va a prendere anche in Cina.
L’Ncaa sarà sempre più italiana?
Sì, anche per come ho vissuto io le giovanili in Italia, so che molti ragazzi vogliono andare negli Stati Uniti. Sono abbastanza certo che ce ne saranno sempre di più.