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Anna Rescifina, la giramondo con tappa a Washington

Anna-Rescifina-American

Il college basket è tantissime cose: un trampolino verso l’NBA e il professionismo, l’unica occasione di brillare in campo prima di affrontare la vita da adulto, l’opportunità di riscatto sociale attraverso lo sport e studiare ai massimi livelli oppure solamente una meravigliosa esperienza di vita. Da aggiungere a questo elenco, da un po’ di anni ormai, c’è anche la quasi irrinunciabile opportunità per le ragazze e i ragazzi europei di guadagnare molti soldi e per una giramondo come Anna Rescifina, cresciuta tra Italia e Spagna, con mamma ex giocatrice e padre presidente di una squadra, l’America era l’approdo inevitabile.

Una lunga chiacchierata con una delle veterane del gruppo italiano nel college basketball arrivata al suo anno da senior. Dai suoi tanti interessi alle difficoltà nell’ingresso del mondo americano fino al potere del NIL e l’importanza di avere delle amiche a fianco in questa avventura.

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Anna-Rescifina-American

Cercando informazioni su di te si apre un mondo che potrebbe portarci a fare un’intervista unicamente sulla tua vita: partiamo dal fatto che sei nata e cresciuta in una famiglia di cestisti. Ti hanno spinto loro verso la pallacanestro o è stato un percorso naturale?

É stata una cosa molto naturale: i miei genitori amano lo sport e sin da piccola mi hanno spronata a provare sport differenti. Non riuscivo a stare ferma da piccola e volevo fare tutto, non mi piaceva stare a casa. Quindi in base alla stagione provavo sport diversi: ho fatto sci, tennis, windsurf, ma i tre sport principali che ho fatto mentre crescevo sono basket, nuoto e karate. Mi piacevano tutti e tre allo stesso modo e non riuscivo a sceglierne uno. Ho scelto alla fine la pallacanestro perché mi divertivo di più e poi era una cosa importante a casa: mia madre (Lilia Malaja ndr) è stata la mia prima allenatrice, fino ai 14 anni. Mio padre era presidente di una società sportiva intitolata a mio nonno, quando ero nata stava in A2. Quando ho iniziato, volevo giocare come mia mamma e gli insegnamenti che lei mi ha dato non potevo apprenderli da nessuno. Per lei è sempre stata la sua vita e mi è sempre risultato naturale apprendere le cose che mi diceva. Anche papà sa tanto di pallacanestro e mi sono innamorata piano piano di questo sport. Poi all’inizio non mi allenavo neanche tanto: al sud non ti allenavi cinque volte a settimana, ma tre e io riuscivo a fare altro, come suonare violino o pianoforte. Poi quando è arrivata la chiamata da Roma, l’ho presa come fosse un segno.

Siciliana, passata per Venezia ma sei nata in Spagna e ora giochi in America: dove ti senti a casa?

É una bella domanda perché mia madre è bielorussa ed è nata in Kazakistan, io sono nata in Spagna ma poi ho vissuto a Messina, a Roma e a Venezia. Dovevo prendere il passaporto spagnolo, ma poi con il Covid non sono riuscita fare tutte le carte necessarie. Ma casa senza dubbio è l’Italia, in generale, perché a Messina sono cresciuta, a Roma ho vissuto i primi anni di liceo e a Venezia gli ultimi che sono quegli anni in cui ti formi come persona, impari a crescere e gestirti. Andando fuori casa ho dovuto imparare a farlo, mi ha costretto a maturare e quindi Roma mi ricorda quel periodo lì e mi si stringe il cuore, anche per il contesto. Giocavo all’High School Basket, lo stesso progetto dove hanno giocato Elisa Penna e Francesca Dotto anni prima, al centro dell’Acquacetosa. Mi ricordo ancora della chiamata di Giovanni (Lucchesi, attuale allenatore dell’U16 femminile ndr.) Eravamo 14 bimbe che vivevamo lì ed era un sogno: andare a Roma a giocare a basket. Ci allenavamo tanto e quello è stato il momento in cui mi sono focalizzata sul basket e sono passata a farlo a tempo pieno e smettere con gli altri sport. Però casa per me è più un sentimento, sono le persone che rendono un posto casa.

Sei una delle veterane del college basketball: ora sembra quasi scontato il passaggio in America, ma fino a qualche anno fa non era così. Da dove è nata l’idea di andare in Ncaa quattro anni fa?

L’idea di andare in America è arrivata l’ultimo anno di liceo, molto in ritardo rispetto al processo normale. Nasce dal fatto che mi piace viaggiare, se potessi lo farei tutti i giorni della mia vita. Mi era piaciuto il fatto che ero cresciuta a Messina, poi ho vissuto a Roma e a Venezia, conoscere nuove persone, cambiare, mettermi alla prova e vedere se riuscivo ad integrarmi. Mi sono detta che l’America non sarebbe più ricapitata, o prendevo l’opportunità o mi sarei pentita. Nel caso sarei tornata a casa, non mi vincolava niente. Mi volevo anche confrontare con un nuovo tipo di basket, i livelli qua sono diversi, molto alti e poi la cosa che mi ha colpito di più è che l’America non ti costringe a scegliere tra sport e studio: per me è molto importante l’istruzione e in Italia è complicato giocare in A1 e studiare, che ne so, medicina. Qui invece approcciano l’idea più apertamente e non ti costringono a scegliere. L’anno a Venezia con la Reyer, dove ho avuto la fortuna di allenarmi con giocatrici di WNBA, mi ha aperto gli occhi sulla loro fisicità e sul modo di giocare diverso da quello italiano o quello dell’est che mia madre mi ha insegnato. Volevo aggiungere una cosa al bagaglio. Poi ero magrissima, per me è complicatissimo mettere su massa perché di costituzione brucio in fretta e l’America era un’opportunità anche da quel punto di vista, oltre che migliorare il mio 1 contro 1, il tiro da tre punti. Mi dava l’opportunità di essere un’atleta che aveva un bagaglio vastissimo di esperienza.

Com’eri quattro anni fa come giocatrice e come persona e come ti senti cambiata in questi anni?

L’America mi ha cambiato, sia dal punto di vista della maturità che da quello fisico e della consapevolezza. Rispetto a quattro anni fa, sono più esperta, il mio IQ è più alto, penso meno quando gioco che sembra una cosa contraddittoria ma non lo è. Giocare a mente libera è diverso, prima ragionavo quando avevo la palla, ricevevo un blocco e poi tiravo. Ora invece reagisco, faccio la stessa cosa ma è più veloce. Poi sicuramente dal punto di vista fisico, mi sento più forte, così come il tiro da tre punti,

Ritornando al tuo inizio, come è andato il processo di recruiting?

É stato un processo impegnativo perché è partito tardi, a dicembre. Era tardi per tutti gli step che dovevo fare, che solitamente partono l’anno precedente. É stato molto rapido, parlare con gli allenatori, capire cosa mi piacesse, cosa no. Mi avevano chiamato tutte le squadre della Patriot League e altre squadre come Delaware. Tutte squadre della costa est che era un mio obiettivo. Quando ho iniziato questo percorso, mi ero fissata dei paletti, tra cui la costa est che mi faceva sentire più vicino all’Italia. Che poi vicino…sono comunque nove ore di volo ma dall’altra parte erano diciassette. Poi volevo vivere in una città, non volevo andare in un posto sperduto in mezzo al nulla, volevo conoscere persone e creare connessioni, uscire, andare in città. Ero abituato a Venezia e a Roma. Poi volevo trovare un posto che mi desse sia l’opportunità di giocare e sia un livello accademico ottimo. Sto cercando di prendere due lauree al momento, una in Business con la specializzazione in Finance, e poi una laurea in Data Science e analytics. Ad American richiedono un GPA (Grade Point average, la media scolastica ndr) alto, in altre università magari ti chiedevano un GPA di 2.2 che significa che non danno valore allo studio. Per me era importante studiare. Poi sono capitata a Washington, meglio di così non poteva andare.

Una parte del tuo periodo lì l’hai condiviso con un altro italiano che giocava a basket, Lorenzo Donadio. E’ stato utile avere un appoggio italiano in America?

Lollo non lo conoscevo prima di venire qua e il nostro primo incontro è stato divertente. Le mie compagne di squadra mi hanno accolto, abbiamo fatto il giro del campus e una di loro mi raccontava di questo suo migliore amico, italiano, che giocava nella squadra maschile. E io gli ho detto “Scusa, ma è italiano?”. Poi di Roma, anche lui che ha giocato alla Stella Azzurra, gli ho chiesto se era sicura perché qua dicono che sono italiani anche se hanno un trisavolo americano e loro l’Italia non l’hanno mai vista. Qualche giorno fa ci siamo incontrati ed ero felicissima. É stato di grande supporto avere qualcuno di italiano con me, poi anche lui studiava business, quindi era un aiuto anche da quel punto di vista. Poi, essere uno studente-atleta è molto impegnativo, sei molto occupato e non hai tanto tempo per uscire. Avere con Lollo un rapporto del genere ti faceva sentire anche a casa, quando eravamo in palestra o a fare i trattamenti. Parlare cinque minuti in italiano con qualcuno ti faceva stare meglio. Per dire, abbiamo fatto la pasta insieme. Ma l’effetto te lo fa anche quando sei con altre ragazze europee: al primo anno c’era una ragazza inglese e una spagnola ed è stato di aiuto perché le difficoltà dell’anno da freshmen sono tantissime e tra internazionali ci si aiuta tantissimo. Anche Eleonora Villa – che ha tante internazionali in squadra – me l’ha confermato.

Com’è stato il tuo anno da freshmen?

Nel freshman year un po’ di alti e bassi. Qua, sfortunatamente, molti allenatori hanno questa concezione che se sei una freshman non hai esperienza e quindi devi, tra virgolette, imparare da quelle più grandi. Cosa un po’ buffa, per me perché io, tra tutte quelle della mia squadra, ero quella con più esperienza. Potevi dirmi quello che vuoi, non sai giocare, non sai tirare, non sai difendere, ma l’esperienza visto quanto avevo fatto in Italia ne avevo. Ma la mia allenatrice (Tiffany Coll ndr.) aveva un po’ il pallino su questa cosa, dell’esperienza, di queste gerarchie obbligatorie. Dico alti e bassi perché le storie di alcune mie compagne di squadra erano terribili, c’era chi mi diceva che aveva giocato due minuti in tutto il primo anno. Alla fine io sono entrata in quasi tutte le partite, magari anche solo per pochi minuti. Sono partite in non-conference che dovevo conquistarmi la fiducia della coach, poi sono addirittura entrata in quintetto ad inizio della Patriot League e tra gennaio-febbraio ho fatto partite anche da 20-25 minuti. Poi alcune mie compagne si sono lamentate del poco spazio e piano piano ho visto i miei minutaggi scendere fino alle ultimissime partite dell’anno dove non ho giocato oppure tre minuti per darmi il contentino. Però non mi posso lamentare viste le esperienze delle altre e poi è un momento che mi ha fatto crescere.

Arriviamo all’ultimo anno dove il minutaggio c’è stato eccome. Raccontacelo: ti aspettavi di giocare visto che era una junior? 

Non ti dico che me l’aspettavo perché uno non si dovrebbe aspettare le cose ma guadagnarsele. Però ad inizio della scorsa estate mi sono messa a lavorare tantissimo e poi ho visto i risultati di quel lavoro. Lo scorso anno avevamo una squadra con sette freshmen, praticamente la metà, e non sono le giocatrici italiane di 17-18 anni che hanno assaggiato il campo tra A1 e B, vengono dall’High School che è praticamente un under 18. Arrivano proprio come delle bimbe che non hanno tanta esperienza a volte. Quindi è stato molto difficile come stagione, ho avuto anche troppo spazio, mi ricordo di aver giocato alcune partite 40 minuti dove non uscivo e facevo praticamente tutti i ruoli. Così per tutta la non-conference.

L’NCAA è cambiata tanto negli ultimi anni, sia a livello economico che – per il femminile – a livello di visibilità. Vivendolo da dentro si percepiva?

Allora, il problema dei soldi personalmente non l’ho ancora affrontato. Anche perché già la mia borsa di studio è importante, vale 75 mila dollari all’anno. Ma il NIL è un punto di svolta. In Europa le giovani non vedranno mai soldi del genere, è una cosa oggettiva. So quali cifre danno anche in Serie A e non sono queste, tranne un’élite di dieci giocatrici in Italia. Non credo che in Europa possa cambiare, quindi questo è un punto di svolta e non ho mai visto così tanti italiani venire di qua. All’inizio, al mio primo anno eravamo io e Laura Toffali, poi c’erano già Silvia Nativi e Clara Rosini. Eravamo in 4/5, forse c’era anche Chiara Grattin. Ora invece siamo in venti e non gli do torto perché è un’esperienza di vita come poche. Sono solo quattro anno e mi chiedo “Perché una giocatrice non dovrebbe farlo?”. Ti fai un’esperienza, vivi come una giocatrice professionista e lo sei a tutti gli effetti, anche se devi studiare. Poi ora è arrivato anche l’incentivo dei soldi che aumenta la voglia di venire in America. Ci siamo detto che è il punto finale.

Poi la pallacanestro femminile sta esplodendo in tutto il mondo

Sono tornata anche quest’estate in Italia e c’era un sacco di gente che parlava di pallacanestro. Gente che non ne sa niente. Tanti miei amici che non hanno idea di cosa sia un pick&roll commentavano le azioni di Caitlin Clark e mi dicevano “Guarda che fa?” e io ero lì che gli facevo “Guardate che so come gioca”. Però si, si sono iniziate ad appassionare, a guardarla un po’ di più. Anche qui in America ho visto delle partite di WNBA sold out, il biglietto o non lo trovi o costa tantissimo. Una cosa folle. Secondo me l’esplosione è più per chi non gioca, vista da dentro è normale, non è cambiato niente. Io seguo Clark e Paige Bueckers da quando sono arrivata qui, sapevano che erano le migliori. Poi i loro ultimi anni al college sono stati eccezionali e in tanti hanno iniziato a seguirle. Il fatto che ora anche ESPN ci trasmette è una cosa aggiuntiva, che porta tante persone e pubblico. Ma dal punto di vista delle giocatrici è cambiata solo la voglia di volerlo fare e imparare a fare cose che fanno loro.

Che ambizioni hai per questo ultimo anno, sia a livello personale che a livello di squadra?

Abbiamo uno staff completamente nuovo con una nuova coach (Kelly Killion ndr.) Hanno imposto uno standard pazzesco. Credo sia uno dei training camp più difficili che ho avuto. Il livello, non ti dico che è raddoppiato, è triplicato. Ci hanno detto “O arrivate a questo livello. oppure la porta è quella e potete dire ciao alla borsa di studio”. Questo è il minimo richiesto per questo programma di quest’anno. Vedo molta energia. Vedo molto impegno e molta voglia di migliorare da tutti quanti. Dopo la stagione dell’anno scorso (finita 1-29 ndr) si può solo andare sopra. Però fare questo salto non è facile: rompere un’abitudine richiede tanto, sia psicologicamente che fisicamente. In queste settimane ho fatto tantissimo metabolico, ore di corse, tante sessione di tiro. É una squadra giovane, due senior, quattro freshmen, sei sophomores che si sono formate dalla difficile stagione scorsa. Vedo un’ottima cultura, tutti attenti allo studio e al gioco. Ho una voglia matta di giocare, proprio di fare una partita. Mi sveglio tutti i giorni alle 5.20 e sono felice, vado a correre, a fare sala pesi, poi in campo a fare qualsiasi esercizio.  Sono felice di andare e sento di migliorare ogni giorno che è una cosa difficilissima, quasi impossibile. Magari ti accorgi di essere migliorata lungo il corso dell’anno o dei mesi, ma io vedo che ogni giorno c’è qualcosa di nuovo e questo ti dà un altro livello di fiducia e autostima e giochi libero, senza peso. Gli allenatori si fidano di te ed è bellissimo. Quindi non vedo l’ora che inizi la stagione.

Tra voi italiane che giocate in America c’è un senso di comunità? Vi sentite?

É un rapporto bellissimo. Mi sento con Vittoria Blasigh, con Eleonora Villa. Chiamo Laura Toffali, Promise Keshi. Due anni con Laura ci siamo visti durante la Spring Break (le vacanze pasquali ndr) e siamo andate a Miami per cinque giorni. Dovrei andare a trovare Vittoria a Miami quest’anno. Siamo più o meno nello stesso fuso orario, magari uno o due ore di differenza, ma le sento più vicine della mia famiglia nonostante con Villa ci siano almeno otto ore di aereo. Però abbiamo lo stesso orario e ci capiamo e ci confrontiamo. Ad esempio, durante la prima settimana di allenamenti ho scritto a Eleonora che non mi sentivo più le gambe e lei mi ha confermato. Quindi è bello, come è bello ricevere messaggi dalle ragazze che arrivano e dare consigli. Ad esempio Emma Zuccon ad Albany troverà una delle mie ex allenatrici che ora è lì come assistente. Molte giovani hanno preso questa opportunità ed è eccezionale. Abbiamo avuto un’estate piena di soddisfazioni con le medaglie giovanili e quella senior, dove per poco non siamo andate a giocare l’oro. Coach Capobianco ha fatto una lavoro eccezionale ed è mancato poco poco.

Facciamo che agosto 2026, tra un anno esatto, ci risentiamo sempre per un’intervista. Saresti contenta se fosse successo cosa e soprattutto dove sarai?

Allora, sarei sicuramente contenta se vincessimo la nostra conference e fossimo arrivate almeno alla prima fase della March Madness. Se mi fossi laureata con il massimo, o quasi, dei voti nelle mie due lauree nella specializzazione. Se le mie allenatrici a fine anno mi diranno “brava Anna”. E devo dirti un attimo, sarò molto contenta soprattutto se queste due guerre assurde in Palestina e in Ucraina finalmente finiscono. Però a settembre dell’anno prossimo, non so dove sarò. Sono in Europa, non so se torno direttamente in Italia, se faccio un pit stop in qualche altro posto. Devo essere onesta, mi piacerebbe molto tornare in Italia perché il mio sogno è giocare lì il prima possibile, appena posso, appena riesco, e tornare a vestire la maglia azzurra perché sono stata un po’ sfortunata. Dopo che siamo arrivate quinte all’Under 16 all’Europeo, c’eravamo qualificate per il mondiale ma il Covid l’ha cancellato. Poi con  l’Under 18 mi sono fatta male a un ginocchio e con l’Under 20 mi sono fatta male all’altro ginocchio. Quindi sarebbe il mio sogno tornare presto ad indossare la maglia azzurra e giocare in Italia aiuterebbe, anche perché mi confronterei con il mondo italiano dopo questi quattro anni. Però non escudo altre possibilità.

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