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Candy Edokpaigbe: la scintilla napoletana di San Francisco University

Candy Edokpaigbe

Candy Edokpaigbe

Tecnica che incanta, grinta che conquista, cuore che ispira: questa è Candy Edokpaigbe. Nata a Napoli, cresciuta tra sogni azzurri e rimbalzi conquistati con determinazione, Candy ora punta a migliorare ulteriormente nella sua seconda stagione negli Stati Uniti con la San Francisco University. Dopo aver conquistato il bronzo ad Euro U20 con la maglia della nazionale italiana (13.9 punti di media) e dopo aver  vissuto un anno intenso a Seattle, oggi si racconta con la solarità che la contraddistingue: tra fast food, parquet e il desiderio di essere un punto di riferimento dal punto di vista umano prima ancora che sportivo. Perché Candy ha questa capacità: accende chi le sta accanto.

Era da tanto tempo che non si respirava così tanto entusiasmo attorno al basket femminile. La nazionale senior prima e poi voi siete riuscite a ridare slancio all’intero movimento. Te ne sei accorta?

Sì, assolutamente! Anche noi abbiamo percepito questo entusiasmo crescente! É stata una bellissima esperienza e spero che negli anni il basket femminile continui sempre a dare soddisfazioni a questo nostro Paese.

A livello personale hai ricevuto tante richieste di  interviste. Quale storia vuoi che venga raccontata?

Quella di una giovane atleta che non si è data per vinta; la storia di una ragazza che nonostante un’infanzia difficile e le mille difficoltà, non ha mai smesso di lavorare per raggiungere i propri sogni e obiettivi.

Quali sono questi sogni?

Il primo e il più importante in realtà l’ho già realizzato: quello di poter indossare la maglia della nazionale italiana. L’ho desiderato per 19 anni e finalmente ce l’ho fatta. Per me la “vittoria” non è stata tanto la medaglia di bronzo, ma proprio la possibilità di rappresentare l’Italia in campo. Ogni anno che passava era un peso: non poter giocare in nazionale, non confrontarmi con le migliori. Guardavo le partite su YouTube sognando di essere lì. Quando è arrivato quel passaporto con scritto “italiana”, è stata una gioia indescrivibile!

Come spieghi questo legame così forte con l’Italia, tanto da scegliere di giocare per il nostro Paese e non per la Nigeria?

La Nigeria è il Paese dei miei genitori, ma io mi sento profondamente italiana. Volevo restituire qualcosa al Paese che mi ha fatto innamorare del basket e mi ha dato l’opportunità di giocare. E poi, mia madre aveva già la cittadinanza… non potevo restare indietro! (ride)

Sei anche molto legata a Napoli. Cosa ti piace di più di questa città?

Nelle mie vene scorre lo stesso spirito libero che si respira in questa città. Sono cresciuta in una delle traverse di Corso Garibaldi giocando in giro nelle piazze. Quello che mi piace di più di questa città è la gioia che viene sprigionata da ogni via, l’azzurro del mare, il sorriso e la gentilezza delle persone. Una cosa che differenzia Napoli dalle altre città è proprio il cuore che hanno le persone; ed è questo cuore che voglio portare negli USA.

Come pensi di farlo?

Prima di tutto come persona. Voglio essere un punto di riferimento per le mie compagne nei momenti difficili, quella che sa dare energia e morale. E questo si può fare solo se hai un grande cuore.

Oltre all’esperienza in nazionale, in curriculum hai anche una stagione in A1 con la maglia del Faenza. Cosa ti ha insegnato il massimo campionato italiano?

Ho avuto la possibilità di imparare tanto da giocatrici come Marzia Tagliamento e Antonia Peresson: aver avuto la possibilità di poter fare un anno con loro mi è stato di grande aiuto per capire molte cose sul tipo di giocatrice che volevo diventare. Inoltre, se vuoi raggiungere il livello delle giocatrici della nazionale senior, devi affrontarle e quindi essermi misurata con loro è stato un passo importante per raggiungere quel livello. Un grazie speciale però lo devo al  coach Paolo Seletti: mi ha fatto vedere la pallacanestro in un altro modo. Grazie a lui non sono solo migliorata sotto l’aspetto tecnico e tattico ma anche dal punto di vista personale. Gli sono veramente grata.

Hai parlato di nazionale senior. Qual è la tua giocatrice di riferimento?

Giocare con la maglia della nazionale senior è sicuramente il sogno più grande che ho e lo vorrei fare a fianco di Cecilia Zandalasini. Le Golden State Valkiries, la sua squadra WNBA, giocano a San Francisco e spero davvero di poter andare a vedere almeno un loro match. Quando due anni fa ho giocato contro la Virtus Bologna non ho avuto modo di parlarci, ma sono stata tutto il tempo in panchina a guardarla con gli occhi a forma di cuore! Dovrò lavorare sodo, ma spero davvero di poter condividere il campo con lei in futuro.

Hai ricevuto diverse proposte. Cosa ti ha convinto ad accettare quella di San Francisco?

La mia futura coach, Molly Goodenbour. Quando l’ho vista per la prima volta mi è sembrata proprio una tosta, una tipa veramente una cazzuta! Da giocatrice ha vinto due titoli NCAA con Stanford e da quando ha preso in mano le Dons ha riportato il programma in alto. Lo scorso anno hanno persino battuto Gonzaga, una delle top della WCC. Appena l’ho conosciuta ho capito che quello era il posto giusto per me. E poi diciamo la verità: dopo un anno al freddo di Seattle, avevo bisogno di un po’ più di caldo in California.

Quale sarà il tuo ruolo in squadra?

Sarò chiamata a dare un grande contributo in attacco ma anche solidità e aggressività in fase di rimbalzo. Coach Molly vuole che la difesa parta da me e quindi dovrò essere pronta a conquistare i palloni sotto canestro e far ripartire le mie compagne. Un gioco che mi piace e che è nelle mie corde.

Cosa ti ha spinto a lasciare Seattle University?

Qualcuno potrebbe pensare che è a causa delle tante sconfitte. Ma non è assolutamente così. Dal punto di vista personale, infatti, è stata una stagione positiva (11.1 punti di media e 51.9% dal campo). A Seattle hanno riconosciuto il mio talento e mi hanno dato molta fiducia concedendomi molti minuti in campo (30.1) – cosa rara per una freshman. Non posso che ringraziare tutto lo staff.  Inoltre, sono andata in USA con un preciso obiettivo, quello di poter continuare il mio percorso cestistico ed immergermi in una nuova cultura. Ho scelto di cambiare squadra perché vorrei davvero avere l’occasione di poter girare un po’ gli USA in questi quattro anni. Anche se devo dire che è davvero uno stress non sapere che fine farai una volta inserito il tuo nome nel portale dei transfer. (ride)

Hai comunque bei ricordi del tuo primo anno al college?

Più che belli, stupendi. Una cosa che mi è rimasta davvero nel cuore è il senso di “famiglia” che si era creato in squadra. Tra di noi ci chiamavamo “sorelle” e passavamo davvero tanto insieme. Ma penso che sia una cosa tipica del college basket statunitense. Il fatto di stare con ragazze della tua stessa età aiuta a creare un’alchimia che è difficile da spiegare e penso impossibile da ricreare in Italia. Non dimenticherò mai neppure il tour di tutti i fast food della West Coast che mi hanno obbligato a fare in trasferta. Meglio non dire niente dei chili in più che ho preso! Poi la questione dei “passi”. Non so quanti me ne abbiano fischiati in allenamento prima che iniziassi a prendere le misure: fai conto che me li chiamavano anche quando non c’erano “almeno mi abituavo”. (ride)

Sei in contatto con le altre italiane che il prossimo anno saranno in USA?

Sì, e non vedo l’ora di riabbracciare Nicole Benini, con la quale ho condiviso la stanza lo scorso anno a Seattle; Caterina Piatti, Martina Fantini e la “rimbalzista” Emma Zuccon: non so davvero come faccia a prenderne così tanti. Se la intervistate chiedeteglielo!

Che consiglio daresti ad una giovane atleta, magari italiana di seconda generazione, che vorrebbe calcare i tuoi passi?

Di non lasciarsi abbattere dalle difficoltà e dalla burocrazia. Continuate a fare ciò che vi piace fare: giocate a basket e lavorate sodo. Soltanto così la vita vi ripagherà.

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