Il mondo di Duke raccontato dall’interno da un ragazzo che respira pallacanestro da quando è nato: dopo aver seguito suo padre Ettore in giro per il mondo, Filippo Messina ha preso la sua strada ed è ormai al quarto anno a Durham dove studia economia e lavora nello staff di coach Jon Scheyer.
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Ecco il suo racconto, dalla madre di Cooper Flagg all’arrivo di Dame Sarr, dalle valigie inutili al titolo mancato, dalle canzoni di Jared McCain all’età di suo padre.
Dalla Russia agli Stati Uniti passando per la Spagna, difficile definire normali i tuoi primi 20 anni. Raccontaci com’è stata la tua infanzia.
E’ stata un’esperienza molto molto bella, a volte è stato difficile lasciare amici e casa però per me dopo un po’ è diventato quasi normale cambiare città. E poi è stato molto bello essere un minimo coinvolto nel lavoro di mio padre e poi sempre di più man mano che sono diventato più grande. A San Antonio andavo a vedere gli allenamenti, cercavo di capire cosa stavano facendo, un anno con il draft ho fatto un paio di mini report per mio padre che mi coinvolgeva già quando ero piccolo e recentemente anche a Milano mi dà sempre qualcosa da fare. Valorizza molto la mia opinione e, anche se ovviamente magari su certe cose non mi ascolta, mi parla molto di tutti gli argomenti ed è una cosa che apprezzo molto.
Amico di Dean Smith e di altri grandi coach dei Tar Heels, tuo padre si definisce un alunno di North Carolina. Come ha preso la tua decisione di andare nella grande nemica Duke?
È stato legato a North Carolina, era amico di Dean Smith però, secondo me, non si sente proprio un tifoso dei Tar Heels. Ci tiene molto e si sente legato perché è stato lì, ha lavorato con Dean Smith ed è stata un’esperienza molto stimolante che lo ha aiutato a crescere e tutto, però non è un vero tifoso di North Carolina anzi, negli anni abbiamo guardato più partite di Duke. Quando son stato preso a Duke con l’opportunità di lavorare con Scheyer, lui era molto felice perché è una grandissima opportunità per me. Ogni tanto mi prende in giro e mi chiama ‘dukie’, che è un po’ un soprannome negativo per chi va a Duke, però era molto contento.
Sei arrivato nel 2022 che è un anno che a Duke si ricorderanno per sempre perché finisce l’era di coach K. Hai avuto modo di incontrarlo?
Coach K frequenta ancora Duke, è venuto raramente agli allenamenti perché soprattutto all’inizio voleva lasciare spazio a Scheyer, ma a volte si vede anche in palestra e l’ho incontrato un paio di volte. E’ molto bravo con i nomi, non gli avevo neanche stretto la mano e lui ha detto ‘Ah, Filippo’ e mi ha colpito molto, coach K che sapeva il mio nome…Sono stato male una settimana l’anno scorso e mi ha scritto chiedendomi come stavo e a me sembrava una follia, quindi è sempre stato molto carino con me.
Hai iniziato subito a lavorare con coach Scheyer, come ti sei trovato con lui?
E’ veramente un’esperienza molto bella lavorare con lui, nel 2022 era il primo anno anche per lui e c’è stata subito una bella relazione perché eravamo tutti all’inizio di qualcosa. E’ un leader molto giovane ma anche brillante, ha molta energia e ha un’empatia con i giocatori che secondo me lo aiuta molto. Ci usa in vari modi, a partire dal campo per i workout individuali, dato che l’obiettivo qua è fare workout più live possibili come dicono loro, più simili alla partita possibile, e quindi bisogna avere tanti manager in campo che possono aiutare. Lavoriamo anche con le statistiche e con i video, Scheyer è giovane e capisce molto bene tutte le possibilità tecnologiche che ci sono ora con il basket, per lui è molto importante.
A questo proposito, tu che li hai visti entrambi da molto vicino, qual è la differenza principale tra gli allenamenti del college basket e quelli del basket europeo?
Ci sono analogie, ma una cosa molto diversa è che qui sono molto più creativi: per esempio, ci stavamo allenando prima della Final Four e nel 5 contro 5 è stata messa la musica a palla in palestra per simulare il casino che ci sarebbe stato durante la partita, quando magari non ci si riesce a sentire e quindi per aiutare ad abituarsi a questo. E’ un esempio, ma facciamo tante cose di questo genere. E poi qui si fa molto più lavoro individuale: in Europa ci sono meno persone negli staff, meno attrezzature e anche meno tempo per farlo. Qua abbiamo 12 student manager, 3 graduate assistant e 6 allenatori che possono usare due campi con tre macchine sparapalloni… all’Olimpia hanno 7 allenatori, sono messi molto bene rispetto a tante squadre di Eurolega, ma c’è una grande differenza.
Ora sei Head Student Manager for the Men’s Basketball program: hai detto che siete in 12, spiegaci com’è questa struttura e quali compiti avete.
Ci sono delle gerarchie, al primo anno fai le cose più ‘sporche’ come pulire il campo, gonfiare i palloni, ti assicuri che tutti abbiano l’acqua, il Gatorade o la pozione che usa un determinato giocatore. Durante gli allenamenti sei sempre in campo e puoi far parte di un esercizio e magari ti metti a marcare Jared McCain. Negli anni successivi, hai meno responsabilità di questo tipo e fai più lavoro su statistiche e video e, negli ultimi due anni, fai tutte le trasferte e quindi devi occuparti anche di tutto l’equipment. Portiamo una quantità assurda di cose, alcune di cui non abbiamo mai bisogno, e poi aiuti durante la partita con alcune statistiche. Ogni anno lavori per avere più responsabilità e imparare più pallacanestro vera.

Filippo Messina in allenamento con Jared McCain
Una cosa inutile che portate sempre a ogni trasferta e non usate mai?
Abbiamo questa valigia grossa, dentro ci sono 6 seggioline piccole che, in teoria, dovresti usare durante i time out da mettere in campo per non stare in panchina vicino a qualche tifoso che potrebbe guardare cosa stai disegnando e dirlo all’altra squadra, ma non le abbiamo mai usate e sono un peso enorme.
A proposito di clima nei campi universitari, voi giocate nel Cameron Indoor dove lì sì che hai la gente a pochi centimetri: com’è giocare lì e com’è il vostro rapporto con i Cameron Crazies?
È un posto leggendario, c’è dentro così tanta storia che penso non costruiranno mai un altro campo. È davvero un posto speciale, è piccolo e c’è un rumore assurdo con i Cameron Crazies che saltano vestiti in modo strano, fanno molto casino e ci aiutano molto, in questi 3 anni che sono qua abbiamo perso pochissime partite in casa. E’ molto bello giocare lì, tranne quando hai un genitore di un giocatore dietro di te che urla: ‘Date la palla a mio figlio’, ce ne sono così anche in America.

I Cameron Crazies
Dicci un nome di genitore, dai.
No, non posso, però a proposito di genitori vi dico che la mamma di Cooper Flagg è veramente la numero 1. Lei è l’unica che può dire a Cooper Flagg: ‘Sei una testa di cazzo, mettiti subito a giocare’. Cioè proprio così, è la numero 1.
Di giocatori ne hai visti parecchi ormai, ne scegliamo uno per stagione e tu dacci un aggettivo per definirlo. Iniziamo con Dereck Lively.
Direi imponente, quando è in campo si sente tantissimo la sua presenza, è veramente un giocatore che ti dà sicurezza. Ha i suoi limiti, ma con lui sai che la tua difesa c’è, il tuo pick and roll c’è. E’ imponente anche fuori dal campo, è uno che fa veramente tanto rumore: anche quando era infortunato all’inizio della stagione, urlava ai compagni, ogni cosa che diceva la diceva a voce altissima. Ha questo impatto, molto chiassoso ma positivo.
Poi Jared McCain
Lui è un tipo molto vivace, come si vede nei tik tok quando canta e balla. Non ha un’altra personalità che crea per i video, è veramente così e questo è il suo punto di forza: siamo sotto di 10 e lui ti guarda con il suo sorriso e ti dice: ‘Adesso recuperiamo e vinciamo’. Anche nei suoi workout individuali, era sempre con la musica a palla, sa tutte le canzoni di Drake e le cantava parola per parola, è un modo per divertirsi quando gioca e anche per sentirsi sicuro di sé. Poi ha un’etica del lavoro come pochi, era in palestra alle 6 del mattino ogni giorno in preseason e spesso anche in stagione.
E finiamo ovviamente con Cooper Flagg
Veramente impressionante, non ho aggettivi per lui. Mi verrebbe trascinatore perché quando eravamo sotto o in partite difficili, lui c’era sempre. Magari non nell’ultima giocata, perché in tutte quelle che abbiamo perso è successo qualcosa, non è riuscito a tirare o a segnare, ma prima di quella azione lì c’è sempre stato ed eravamo lì grazie a lui. Come persona numero 1, anche lui era un bimbo visto che è arrivato a 17 anni, era un ragazzo normalissimo, però dalla palla a due aveva un impatto sulla partita assoluto. Magari non segnava, ma metteva tutti in ritmo, difendeva sempre sul migliore, in tutti gli scrimmage in preseason non perdeva mai, e infatti siamo arrivati alla Final Four e a un passo da vincere.
Con lui sembrava l’anno buono per tornare al titolo dopo 10 anni: avanti di 6 a meno di un minuto dalla fine contro Houston, cosa è successo?
L’esperienza della Final Four è stata bellissima, è tutto un circo, gli americani le cose grandi le sanno fare molto bene e molto in grande, poi eravamo a San Antonio e per me era bello tornare lì. Quella partita è stata molto dura, per noi Houston era la squadra più difficile da affrontare, molto più vecchi di noi, più tosti in tanti aspetti, più forti fisicamente, e infatti è stata molto difficile. Anche quando siamo andati avanti, non ci sentivamo sicuri, ogni canestro era difficile e poi quell’ultimo minuto lì è stato molto brutto e crudele. Nessuno se lo aspettava, anche a 30 secondi dalla fine eravamo preoccupati ma la partita era nostra. E’ stato molto brutto anche uscire dal campo in mezzo a due ali di tifosi di Houston, non è stata una camminata facile.

Filippo Messina con il trofeo dell’East Regional
Adesso si riparte con un’altra grande classe di freshman, come ti sembra la squadra di quest’anno con Cameron Boozer?
Si riparte voltando completamente pagina, Scheyer insiste molto con lo staff sul non fare paragoni con quella dell’anno scorso che era una delle squadre più forti di sempre, se non la più forte di sempre. Bisogna ripartire da zero, la squadra mi piace molto, ci sono tanti giocatori che sanno fare tante cose diverse e quindi siamo molto versatili. Possiamo giocare small ball o più grandi con Patrick Ngongba e Maliq Brown, abbiamo tantissima difesa, tantissima stazza, molto atletismo e anche tiro e quindi possiamo fare molto bene. Per Boozer non è facile arrivare dopo Cooper Flagg, ma lui è perfetto. Magari non è quello che è sempre lì che dice qualcosa, è un pochino più chiuso di Flagg che era molto vivace, ma è enorme, sa fare tutto, tira molto bene, la passa molto bene, sa fare pick and roll. Con lui possiamo fare molto bene.
E non sei più solo: Dame Sarr è il primo giocatore nato in Italia a vestire la maglia dei Blue Devils. Come l’hai visto a Durham?
È un talento assurdo. Intanto ha stazza, perché è alto, ha braccia lunghissime, un atleta quasi americano, pazzesco. Quando si mette in difesa, ce ne sono pochi come lui e in attacco capisce molto bene il gioco grazie alla sua esperienza. Deve fare tanto lavoro individuale perché gli mancava al Barcellona, dove giocava tantissime partite e, come ho detto prima, non c’era l’attrezzatura per farlo. Da quel punto di vista, è un pochino più indietro ma il talento c’è, farà molto bene e ha grandissime chance di essere una lottery pick. Alla fine ci intendiamo bene, avere un altro italiano a Durham sia per me che per lui aiuta molto quando sei lontano da casa, anche solo fare due chiacchiere in italiano ti rallegra un po’ la giornata. Parliamo spesso, da quando sono tornato dopo le vacanze ho visto quanto è già migliorato in sole due settimane, si trova bene qui ed è molto contento. E’ anche molto focused su quest’anno e non sul suo futuro. Mi ha detto che al Barcellona non c’era così tanta attenzione per il lavoro individuale, e qui invece ne farà tantissimo. Sta lavorando per fare più 1 contro 1, cosa che a Barcellona non faceva, e la cosa bella di lui è che sa fare bene tutto il resto, diciamo da giocatore complementare visto che lo ha già fatto ad alto livello. Adesso deve fare un altro step che è avere di più la palla in mano.
Parte in quintetto?
Sì, sì.
Sarr è il nome di punta di una ondata di ragazzi e ragazze che guardano sempre con maggior interesse al mondo del college basket: è una sconfitta del sistema pallacanestro italiano o è un’opportunità che non si può non prendere?
Un dibattito vero non esiste: se viene una squadra di Division I che ti offre tot soldi e che ti offre di lavorare con loro, è un’opportunità difficile da rifiutare. Anche perché tanti parlano del fatto che in Europa, e soprattutto in Italia, non fanno giocare i giovani ma bisogna capire i club: se un giocatore non è pronto per stare in campo senza fare errori, è difficile metterlo in campo quando giochi con altre squadre di serie A, stai lottando per i playoff, è un livello molto alto in Europa ed è difficile buttarli in campo. Trento ha fatto un lavoro bellissimo con Niang, Ellis, Spagnolo, adesso ci sarà l’altro Niang, loro sono riusciti a farlo ma è molto difficile. Poi per i club è difficile vedere questi ragazzi andare via senza guadagnare niente, su questo ci vorrebbe una regola per dare ai club qualche soldo per aver cresciuto il giocatore. Ma sui social leggo gente che critica i ragazzi che vanno in Ncaa, questo non ha senso. L’ha detto anche mio padre: un giocatore che ha questa opportunità, deve assolutamente andare.
‘Le università hanno così tanti soldi che non sanno che farci’, ci ha detto il gm di Nebraska Luca Virgilio. E’ così?
Ho idea di quanti soldi ha Duke e sono veramente tantissimi. E poi è diverso il budget che ti dà l’università dal budget vero che hai nel cassetto che ti danno tutti i donors, i tifosi ricchi del basket. L’Ncaa ha un compito davvero importante di mettere qualche regola per organizzare tutto questo, perché ancora non si sa bene cosa si può fare e cosa no. I college non sono ancora organizzati benissimo per gestire tutti questi soldi, piano piano si stanno tutti attrezzando per gestire il Nil e a Duke vogliono creare un front office sia per lo scouting che per le cose amministrative.

Filippo Messina con Tyrese Proctor
Nella nostra Top25 abbiamo messo Duke alla numero 6, troppo cattivi o è la posizione giusta?
Per inizio anno è la giusta posizione, abbiamo tantissimo potenziale ma è una squadra giovane che farà un po’ di fatica all’inizio. Numero 6 per ora può andare bene, ma mi aspetto una top 3 e anche una numero 1 nel corso della stagione.
Non solo Duke, con l’Nba lavori al progetto Basketball without borders, com’è quella esperienza?
Lavorare con loro è stata un’esperienza bellissima, ho avuto l’opportunità di vivere nell’ufficio Nba a New York e andare alle Academy con un livello molto alto. Ho lavorato con prospetti internazionali in tutto il mondo, ovviamente il campus europeo era a un livello molto più alto degli altri, e mi ha aiutato anche per il mio lavoro a Duke perché ho visto qualche prospetto che fra un paio d’anni posso portare a Durham. Di giocatori italiani ho incontrato Cattapan e Thomas Acunzo e li ho visti molto bene, mi sono piaciuti molto. Speravo di vedere il fratello di Niang ma ha avuto problemi di passaporto, tra gli europei lo sloveno Stefan Joksimovic (di cui vi abbiamo parlato qua) che è veramente da seguire anche per noi.
Questo è il lavoro che vuoi fare nel futuro?
Vorrei lavorare in un front office di una squadra di basket, Nba, college o Europa non lo so, dipende dalle opportunità. Ma fare scouting e mettere insieme una squadra è il lavoro che voglio fare da grande.
Chiudiamo con tuo padre: lo hai ‘costretto’ a tifare Duke e a farsi un tatuaggio per lo scudetto, cosa pensi di fargli fare ancora nel futuro? Per esempio allenare in Ncaa?
Allora, ci aveva pensato un pochino l’anno scorso, c’era stata una mezza opportunità ma, secondo me, non lo farà e sicuramente non lo spingo a farlo. Con il recruiting e adesso anche con tutti i soldi che ci sono, è veramente un lavoro difficile e quindi alla sua età secondo me è meglio di no (sorride). Spero di fargli fare magari un altro tatuaggio, quella cosa era nata da una scommessa a inizio stagione, ‘dai se vinciamo lo scudetto, ci facciamo un tatuaggio’ ma in realtà l’ho fatta solo perché io volevo farmi un tatuaggio e in questo modo qua l’ho convinto. Direi che potrei fargli fare una sfumatura ai capelli, secondo me ha bisogno di modernizzare il look.
Va dato subito il diritto di replica a tuo padre, ci sono grandi allenatori in Ncaa ben più vecchi di lui, da Tom Izzo a Rick Pitino.
Ma no, non è troppo vecchio (ride). Sulla sfumatura però sono anni e anni che ci provo ormai.