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Michelangelo Oberti, un centro da lode a Penn

Michelangelo-Oberti

Un italiano in Ivy League. Solitamente è l’attacco di un servizio di un TG, molto meno frequente che lo sia di un articolo sullo sport. Invece Michelangelo Oberti è riuscito a unire il lato sportivo – essere un giocatore di una squadra di D-I – e quello scolastico, approdando in una delle università più importanti e antiche d’America.

Arrivato al suo secondo anno alla University of Pennsylvania dopo aver già frequentato negli Stati Uniti l’high school, il centro classe 2005 ci ha parlato della sua esperienza americana tra i miglioramenti fisici richiesti per giocare al massimo livello, aneddoti del passato e le difficoltà con un NIL che non vuole adattarsi agli studenti stranieri.

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Cresciuto cestisticamente a Bergamo, poi ti sei trasferito in America quando avevi solo 15 anni. Raccontaci di quel primo passaggio: da dove nasce l’idea e come sono stati gli anni dell’high school dove hai dominato e non poco.

L’idea è nata dalla voglia di seguire il percorso di mio fratello Leonardo che ha 3 anni più di me e ha speso un anno in America anche lui in New Jersey da Junior in high school. Penso spesso ai miei anni in high school, li vedo come gli anni migliori della mia vita. Ero circondato da grandissime persone, in primis il mio coach, David Grande, con il quale mi sento ancora spesso. Penso anche ai miei compagni di squadra, soprattutto quelli Italiani, con i quali ho speso innumerevoli ore, sia sul campo ad allenarci e a migliorare, sia fuori dal campo a ridere e a creare memorie che terrò care per tutta la mia vita. Parlando di basket, ho fatto un percorso importante, con il mio primo anno dove non ero ancora sto granché, mostrando però flash di quello che poi ho dimostrato. Il secondo anno ho fatto un balzo, diventando il focus della mia squadra, mentre l’ultimo anno, sapendo già dove sarei andato al college, ho giocato senza dover dimostrare nulla a nessuno, divertendomi e giocando come so giocare.

La strada dell’high school è meno battuta dai ragazzi europei, quanto è stato utile per te arrivare prima in America rispetto al college?

Secondo me è stata una buona idea quella dell’high school. Mi ha dato tante esperienze che hanno facilitato il passaggio al college. Ovviamente imparare la lingua meglio aiuta, però vedere in persona il diverso stile di gioco americano è una cosa speciale. Il mio passaggio dalla high school al college non è stato per nulla traumatico, a quel punto ormai già sapevo cosa aspettarmi, e avere pochi dubbi aiuta sempre.

Michelangelo Oberti

Per poco, Penn non batteva la Yale che ha dominato lo scorso anno: quella fu la miglior partita di Michelangelo del 24-25.

Com’è andato il primo approccio con il recruiting: quali squadre ti hanno contattato, cosa hanno visto in te, come hanno provato a convincerti

Ormai la mia memoria è un po’ offuscata sul tutto, però mi ricordo il mio primo anno, molte scuole D3 mi presero di mira, però non mi potevano ancora contattare. Il mio secondo anno iniziai a scrivere con parecchi coach, la maggior parte D3 e D2, nel pre stagione. Tutti ovviamente vedevano in me un prospetto, non spesso si vede uno alto come me a 16 anni. Ero ancora abbastanza acerbo cestisticamente, però una cosa che non si può insegnare è l’altezza. Durante la stagione mi sono fatto valere, con varie grandi prestazione che attirarono l’attenzione dei primi D1. Nella post stagione mi sono sentito con vari coach di D1, con la prima offerta di Rider University, una D1 locale. Ho poi speso parte della mia estate lavorando con un coach in America, partecipando anche a vari tornei di alto livello, nei quali ho ricevuto grande interesse da varie scuole e offerte, come quella di Penn, dove ora sono.

Sei nell’Ivy League, raccontaci un po’ com’è questo ambiente

Sono stato cresciuto con la mentalità che la scuola viene prima. Non per gufarmela però, per quanto io ne sappia, potrei spaccarmi domani, finendo la mia carriera cestistica. I miei genitori mi hanno sempre detto che un giorno la palla dovrà smettere di rimbalzare, non importa quanto sei forte. Sono sempre stato uno studioso, per esempio in high school ho meritato il titolo di Valedictorian (lo studente con il più alto rendimento accademico della sua classe, che tiene il discorso di commiato alla cerimonia di diploma o laurea ndr.), nonostante stessi studiando in inglese. Arrivato in America, avevo già in mente di voler andare in un college con un eccellente programma cestistico e uno accademico di livello tale. Penn è l’epitome del mio desiderio. Hanno una lunga storia di successo nel basket e il livello accademico è tra i più alti al mondo, letteralmente quello che stavo cercando. Nonostante tutto, l’ambiente è abbastanza normale, ovviamente in standard americani. Sono circondato da persone intelligenti, creative e coraggiose. Molti vengono da altri paesi come me, portando con loro punti di vista e prospettive che aiutano ad arricchire la cultura di questa scuola.

Annata complicata la prima a Penn: tante sconfitte, squadra giovane, tante partite contro Villanova, Penn State, VCU, George Mason. Raccontaci come è andata sia dal punto di vista personale che di squadra.

Assolutamente complicato il mio primo anno. Come squadra eravamo secondo me molto meglio di quello che abbiamo dimostrato. C’era tanto talento, tanta grinta, tanta fame di vincere, però spesso non siamo riusciti a mettere il tutto assieme per strappare qualche vittoria in più. Personalmente ho giocato relativamente parecchio per un freshman, anche se non ho fatto granché. Non spesso ti trovi nel tuo primo anno al college come titolare, io ho avuto questa fortuna. Nonostante tutto ho continuato a lavorare sodo, a parlare con i coach su come migliorare, e a passare innumerevoli ore in campo e in palestra.

Appena arrivato a Penn, su cosa ti è stato chiesto di lavorare

Era lampante cosa dovevo fare. Pesavo 100 chili bagnato fradicio. Mettere su peso e diventare fisicamente più forte è stata la prima e maggior richiesta che mi è stata fatta. Ho preso molto seriamente la mia nutrizione e i pesi, mettendo su più di 10 chili di massa muscolare in un anno. Ovviamente anche la velocità di gioco è maggiore al college, quindi il cardio è stato un focus.

Il NIL è stato aperto anche agli atleti internazionali anche se, in teoria, non potete fare alcuna attività. L’Ivy League storicamente è una conference restia anche nell’elargire le borse di studio, figuriamoci a pagare i giocatori. Come si sta strutturando l’università da questo punto di vista?

Sinceramente mi sono un po’ rassegnato a ricevere soldi dal NIL. Le università dell’Ivy League stanno facendo grandi passi per fare arrivare soldi ai loro atleti, però da internazionale ho davvero poco spazio con cui lavorare, e rischiare di perdere il mio visto per qualche soldo non vale la pena. Le altre conference di D1 stanno facendo un buon lavoro nel pagare i loro atleti, e penso che il NIL stia diventando un fattore sempre più grande nel recruiting, sia locale, sia internazionale. È molto più facile “rubare” i talenti europei/internazionali se puoi offrirgli anche un bel gruzzolo.

Quali sono i tuoi obiettivi personali per la prossima stagione? Su cosa dovrai lavorare?

Voglio lavorare ancora sul mio corpo, sul mio QI, sul mio cardio, e sul mio gioco lontano dal canestro. Ovviamente potrei scrivere una lista infinita di cose sulle quali lavorerò, ma penso che queste siano le più importanti. Come obiettivi personali voglio diventare una garanzia in difesa per la mia squadra. Voglio poter essere un giocatore dal quale si può sempre aspettare una performance solida, di impatto. Voglio però soprattutto vincere, non mi importa come. Vincere eleva una squadra in maniera unica.

E dopo una stagione sottotono, quali gli obiettivi della squadra?

Di essere migliori dell’anno scorso ovviamente. Con il completo cambio dello staff ci sono molte aspettative, e penso che le riusciremo a raggiungere. Siamo una squadra speciale, e stiamo lavorando ore e ore al giorno, tutti i giorni, per raggiungere questi obiettivi. I nuovi coach sono molto più intensi e si vede che anche loro hanno una grande fame. Vogliamo vincere la Ivy League. Vogliamo giocare la March Madness. Non solo giocare, ci vogliamo fare valere.

Com’è stata la tua estate?

Tutte le mie estati in Italia sono belle. Posso finalmente rilassarmi un attimo, vedere la mia famiglia, i miei amici e godermi casa mia. Mi sono anche fatto operare al setto, eliminando un problema che ho dalla nascita. Non ero in grado di respirare attraverso il naso prima; questo intervento è stato un cambiamento grandissimo. Ovviamente mi sono anche allenato parecchio.

Ultima domanda: quando finirà il tuo percorso NCAA, sarai felice se sarà successo cosa?

Penso sarò felice in ogni caso. Questo mio percorso è stato davvero unico, ha alterato completamente la mia vita e non cambierei nulla. Vincere la Ivy League almeno una volta è però necessario. Sarò decisamente felice di andarmene dall’NCAA se non avrò rimorsi.

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