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De Nicolao, lavoro per arrivare in alto

Autore: Riccardo De Angelis
Data: 16 Apr, 2018

Quando raggiungiamo Giovanni De Nicolao per una chiacchierata, lo troviamo nella sala di fisioterapia di UT San Antonio, una delle varie fermate che fanno parte della sua giornata tipica nel campus, fra allenamenti e studio. La stagione è finita, ma non si smette mai di lavorare. La regola vale per tutti nel college basket e a maggior ragione per una squadra ambiziosa come i Roadrunners.

“Siamo una squadra che può raggiungere la testa della C-USA, soprattutto se lavoriamo nel modo giusto in estate. È dal primo giorno dalla fine della stagione che ne stiamo parlando. Quest’anno il nostro obiettivo era di arrivare nella metà alta della conference, mentre ora parliamo di arrivare al torneo di conference da primi”.

L’ultima delle quattro apparizioni totali al Torneo Ncaa di UTSA risale al 2011 e negli anni più recenti la squadra aveva collezionato una serie di stagioni con record negativi. L’arrivo di Steve Henson – che è coinciso proprio con quello di De Nicolao – ha cambiato però tante cose e la squadra è riuscita a toccare quota 20 vittorie per la prima volta dopo tanti anni: “Sicuramente abbiamo fatto tanti passi avanti, siamo felici di com’è andata la stagione. Pensavamo di poter dare di più alla fine, ma con i vari infortuni siamo arrivati un po’ corti. Siamo contenti comunque perché abbiamo quasi cambiato un programma in due anni, un programma che usciva da un po’ di stagioni perdenti”.

Passi avanti di squadra ma anche individuali, per Gio: minuti (27.9), punti (8.7) e assist (3.5) con medie simili rispetto all’annata precedente, ma con un tiro da tre più solido (passato dal 26.1% al 34.6%) e migliori percentuali dal campo al servizio di un collettivo offensivamente molto più pericoloso rispetto al passato. Il tutto continuando a essere un punto di riferimento per coach e compagni, anche e soprattutto nei momenti delicati, come nel caso del tiro allo scadere segnato contro LA Tech, sua vittima preferita e puntualmente punita dal play padovano a ogni appuntamento.

Cos’è cambiato di più per te nel passaggio dal primo al secondo anno?
Quest’anno ho avuto le stesse responsabilità del primo, da playmaker e con le chiavi della squadra in mano, ma ho potuto forzare meno perché avevamo più terminali offensivi, quindi ho potuto gestire meglio i miei tiri. È una sensazione diversa, passare da freshman a sophomore. Tutti ti conoscono un po’ di più, i giocatori ti rispettano di più, gli avversari ti riconoscono. È molto più bello perché sei proprio dentro l’organizzazione.

Il vostro punto di forza è il reparto guardie e l’anno prossimo potrebbe essere uno dei migliori – se non il migliore – della conference. Fra i tuoi compagni di squadra, quali sono quelli che vedi meglio in prospettiva futura da professionista?
Sicuramente le due guardie freshman di quest’anno sono davvero forti, possono segnare un po’ in tutti i modi. Jhivvan Jackson ha un talento pazzesco, l’unica cosa è che deve mettere a posto la testa: fuori dal campo è un po’ un cavallo matto che devono riuscire a tenere a bada. È una cosa un po’ lunga, ma ci stanno riuscendo pian piano. Keaton Wallace è un bravissimo ragazzo, si impegna davvero un sacco. Quando vado in palestra, c’è sempre anche lui. Si dedica tantissimo alla pallacanestro, ci crede. Anche Nick Allen è un buon giocatore, intelligente, fa il suo, non prende tiri a caso. Byron Frohnen ha un gran talento, fa giocare tutti meglio, è un buon difensore, prende tanti rimbalzi: gli serve un po’ più di voglia, magari.

Jhivvan Jackson e Keaton Wallace

Steve Henson è stato premiato come coach dell’anno nella C-USA: com’è essere allenati da lui e com’è lui fuori dal campo?
Henson è una persona super, mi sono trovato davvero bene dall’inizio. È uno che capisce molto il gioco. Non è uno che si incazza tantissimo, che grida come un matto. Ti spiega le cose, si ferma sui particolari: ora, per esempio, sta lavorando sul nostro tiro, suddividendo il movimento passo per passo e cercando di curarcelo. Poi durante la partita è aperto a opinioni. Ogni tanto mi chiede come sento la squadra e cose così. All’intervallo ci chiede sempre cosa pensiamo prima di dire la sua. Anche fuori è una persona super, cerca di aiutare tutti, è altruista. Parla anche un po’ di italiano, male, con me. Ad esempio, per dirmi di giocare il pick and roll a sinistra mi dice “vai a sinistra”, così gli altri non capiscono.

De Nicolao insieme a coach Henson

Marshall ha fatto un’ottima figura al Torneo Ncaa, Western Kentucky è andata molto bene al NIT e Middle Tennessee ha impressionato per tutta la stagione. C’è chi pensa che la C-USA possa meritare due posti alla March Madness: sentendo magari l’opinione di persone un po’ più addentro, credi che ci sia questa possibilità per la prossima stagione?
La possibilità c’è e c’era anche quest’anno. Il problema è che le squadre più basse in classifica avevano perso troppe partite, anche in non-conference, facendo scendere l’RPI di tutta la conference. Per avere due bid, quelle squadre devono iniziare a organizzare meglio la propria non-conference, cercare di giocare con squadre con RPI più alti ma che magari non sono nel periodo di forma migliore.

Per quanto riguarda il futuro, ti vedi fare tutti e quattro gli anni lì?
In questo momento sto cercando di laurearmi in tre anni, in modo da finire l’estate prossima e poi giocare da professionista. Quindi la prossima stagione dovrebbe essere l’ultima.

In ottica pro, quali sono le cose della tua esperienza al college che pensi ti possano tornare maggiormente utili dopo?
Adesso mi sento molto più sicuro di me stesso, per il fatto di avere tanti minuti e la squadra in mano. Ho voglia di tornare e dimostrare che sono un giocatore diverso rispetto a quando ero partito. Qui in America sto lavorando molto sul mio fisico, reggere di più i contatti, marcare meglio. L’esperienza mi ha fatto crescere anche fuori dal campo, perché vivere in un paese straniero dove non conosci quasi nessuno mi ha fatto crescere come persona, e anche quello ti aiuta in campo. Il college poi è una buonissima opportunità, perché quando torni a giocare in Italia non sei più considerato un “giovane” ma finalmente un giocatore.

 

Quest’anno ci sono stati più spettatori alle vostre partite, ma UTSA rimane un posto legato soprattutto al football: com’è l’ambiente intorno alla squadra adesso?
Qui il football domina completamente, hanno strutture spaziali. Noi comunque non siamo messi male: in confronto con l’Italia, non c’è proprio paragone. Come pubblico, siamo una delle ultime squadre della nostra conference, ma pian piano stiamo migliorando. Infatti mi ha sorpreso che durante lo spring break, quando stavamo facendo il CIT, abbiamo fatto comunque 1.200 persone nonostante ci fossero pochissimi studenti nel campus.

Voi giocate in un palazzetto abbastanza strano, sembra quasi l’hangar di un aeroporto. Riuscite a sentirlo il pubblico?
Si sente parecchio in realtà, perché è veramente vicino al lato del campo. L’unica cosa è che potevano farlo meglio. È uno dei primi edifici che hanno costruito nell’università negli anni ’70 e lo usavano come convention center. Infatti ora stanno cercando fondi per nuove strutture, anche per il basket.

Parlando di strutture, cos’è che avete lì e che magari in Italia non si trova?
La palestra è sempre aperta, quindi posso andare a tirare a tutte le ore del giorno e della notte. Ci sono un sacco di manager disponibili, anche alle dieci di sera, per venire a prenderti il rimbalzo. Abbiamo anche due-tre gun, quelle che ti passano i palloni. Abbiamo una sala di fisioterapia tutta nostra e gli spogliati sono personalizzati, con tanto di frigorifero. Il football ha anche un suo chef e viaggiano con l’aereo privato.

Qual’è la tua routine quotidiana adesso in off season?
Alla mattina ho due o tre classi, quindi inizio alle 9-10 di mattina. Dalle 2 alle 3 abbiamo pesi. Poi alle 3 di solito andiamo in campo. Ora in off season abbiamo solo due ore con gli allenatori, per regolamento Ncaa. Però, anche se non ci sono gli allenatori, ci sono i manager che sanno quali esercizi devi fare. Quindi dopo le 3 possiamo tirare oppure facciamo open gym, con delle partitelle fra di noi per tenerci in ritmo.

Sei a San Antonio, quindi hai assistito in prima persona alle Final Four.
La Final Four è una cosa pazzesca. Sapevo che fosse un evento megagalattico, ma non mi aspettavo così tanto. Tutta la città era basata a tema, c’erano gli hotel dedicati a ogni squadra, con foto gigantesche dei giocatori. San Antonio poi è una città fatta ad hoc per queste occasioni, perché tutto è vicino. L’Alamodome è in centro e a due passi da tutti gli hotel.

Qual’è la cosa che ti è rimasta più impressa?
Così tante persone a una partita di basket non le avevo mai viste. L’organizzazione che c’è dietro, il business mi ha impressionato, il modo in cui riescono a vendere un evento così e come tutti quanti lo seguano. Ho avuto la fortuna di essere ospite al Dan Patrick Show, dove c’era anche Reggie Miller. È stata un’esperienza pazzesca perché ho avuto l’occasione di fare una gara di tiro con Reggie, poi andata malissimo: lui ha iniziato a segnarli tutti e a fare il suo tipico trash talking, mi ha distrutto. Una persona davvero super, simpatica, mi ha anche invitato a vedere con lui una partita degli Spurs quella sera.

 

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