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Elisa Leghissa a Sacramento State per sognare ancora

Autore: Paolo Mutarelli
Data: 8 Set, 2025

Elisa Leghissa sa quello che vuole. Fin da piccola sognava l’America e mentre era alle superiori, aveva provato ad andarci. Poi un altro sogno, quello della pallacanestro, si è messo di mezzo fino a che le due linee si sono incrociate e sono concise. Dopo un anno piuttosto complicato causa infortunio e operazione alla spalla, l’Italiana approda a Sacramento State, college che negli ultimi anni sta investendo sempre più nella pallacanestro, al punto che la squadra maschile ha come coach un ex star Nba come Mike Bibby e come GM niente meno che Shaquille O’Neal.

Con lei abbiamo fatto una lunga chiacchierata: dall’esperienza con altre italiane alla Basket Roma all’infortunio alla spalla di gennaio passando per la famiglia di cestisti e il recruit di Sacramento State.

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Finora sei stata sempre in viaggio, da Trieste sei andata a Roma, poi Empoli e  ora l’America. Prima di parlare dell’NCAA, parlaci un po’ di questo girovagare dell’Italia: è una cosa che ti piace oppure sei stata “costretta” a farlo per giocare?

É assolutamente una cosa che mi piace, infatti fin da subito quando ero piccina ho scoperto che mi piace viaggiare e l’ho sempre fatto con la mia famiglia. La scelta di andare a Roma è stata anche per l’idea che c’era dietro la squadra: la chiamata è arrivata a 16 anni, eravamo tutte giovani e poi volevo provare l’esperienza fuori da casa, vivere da sola, essere indipendente e godermi l’esperienza a 360 gradi. Tutti i miei regali dei compleanni sono viaggi. Non è una cosa che mi ha imposto la carriera, anche perché la squadra della mia città, Trieste, è in A2 e mi aveva chiesto se potevo rimanere con loro, però ho deciso di fare un’esperienza diversa, fuori da casa e sperimentare. Il basket ti aiuta a partire e viaggiare? Sì, assolutamente, molto.

Con il basket com’è scattata la scintilla e com’è andato il tuo percorso a livello di gioco fin qui?

Tutta la mia famiglia, mamma, papà, sorella fanno basket da sempre. Mia mamma allena, quindi siamo nell’ambiente del basket da sempre. Prima facevo nuoto e poi ho fatto pallavolo perché non ne volevo sapere di fare basket all’interno di una famiglia che faceva basket. Poi però alla fine ho fatto un camp estivo, l’ho provato, con la squadra di Trieste a Piancavallo e mi sono decisa che il basket è il mio sport. Non è che gioco da tanto, sarà dalla terza media, quindi sette anni.

Elisa Leghissa

Elisa Leghissa

Hai partecipato a un esperimento interessante come quello del Basket Roma che ha puntato su giocatrici molto giovani prima per vincere il campionato di A2 e poi per giocarsi la permanenza in A1: com’è stata quella avventura e credi che possa aiutarti nel passaggio in una realtà forse simile come quella del college?

Assolutamente, sì, secondo me giocare con tutte le ragazze della mia età è un’esperienza che riproduce il college perché alla fine anche lì giochi al massimo con le ragazze del 2002, siamo tutte coetanee. L’anno in A2 è stato un esperimento non molto riuscito, alla fine all’interno di una squadra dove giochi con un campionato senior devi avere delle persone senior, dei leader forti che trascinano la squadra. Tutte giovani, alla prima esperienza in A2, è stata per tutte molto complicato ma anche molto costruttivo. Rimane un’esperienza importantissima che mi aiuterà nel college a vivere la squadra. Anche perché a Roma abitavamo tutte insieme io, Nicole (Benini), Martina (Fantini), Ginevra (Cedolini) e Benedetta Cenci. Tutte nella stessa squadra, tutte nella stessa casa, eravamo tipo in sette con la preparatrice atletica. É stato impegnativo.

Arriviamo a come nasce l’idea di andare negli USA: l’idea dell’NCAA è venuta a te oppure sono arrivate offerte che ti hanno fatto conoscere il mondo dei college?

In America volevo andare da sempre. Ci avevo già provato già in quarta superiore per fare l’anno all’estero, poi non sono riuscita ad andare per il basket e quindi ho deciso di rinviare. Poi è arrivata la chiamata della nazionale, stavo giocando l’A2 in Italia, quindi avevo perso il momento per andare di là. Poi dopo la nazionale, alcune squadre del college mi hanno iniziato a chiamare e mi si è riaccesa la scintilla, era sempre stata una cosa che volevo fare. Quindi, si è concretizzata l’idea e sono riuscita a partire: è una cosa che voglio fare da sempre andare in America, vedere una nuova cultura, sperimentare un nuovo gioco perché comunque il basket là è completamente diverso, quindi assolutamente è una cosa secondo me molto affascinante

Com’è andato tutto il processo di recruit? Quali squadre ti hanno contattato e cosa ti ha fatto scegliere Sacramento State?

Allora, mi ha contattato Rhode Island: era molto interessante come squadra, ma facevano praticamente solo individuali e non giocavano molto di squadra, puntavano tanto sulla persona, quindi secondo me era interessante a livello individuale, ma poco interessante a livello di costruzione del gioco. Poi Toledo, poi mi hanno contattato dove è andata Nicole, a Seattle e alla fine Sacramento.  Ho deciso di andare lì perché già dalla prima call che ho fatto mi hanno offerto la borsa di studio perché mi hanno detto che mi avevano seguito già in precedenza. Mi sembrava che l’allenatore mi conoscesse davvero e quindi ho detto secondo me è adatto alle mie esigenze. Mi hanno parlato di tutte le cose che bisogna migliorare ed erano le stesse cose che pensavo anch’io, quindi ci siamo trovati subito molto in sintonia. Poi anche il posto, diciamo, invitava molto. Sacramento, la California. Poi ti dico che il coach è davvero carinissimo, mi scrive ogni giorno come sto, come va, poi ho avuto l’infortunio alla spalla. Mi ha scritto ogni giorno dopo l’intervento alla spalla, sono davvero super a livello relazionale.

Che corso di laurea hai scelto e perché?

Ho deciso di fare scienze politiche, non so ancora bene che tipo di lavoro mi potrà portare in futuro, però ho deciso di studiare le cose che mi interessano di più e poi in base a quello che studierò e le esperienze che farò, deciderò. Comunque, secondo me, si aprono molte opportunità, è una laurea molto trasversale.

Vieni da una generazione di giocatrici che è molto interessata agli Stati Uniti: nell’attuale U20 di cui anche tu fai parte ci sono parecchie ragazze che affronteranno quell’avventura: quanto è importante vivere insieme con le altre questa situazione oppure ognuno la vive per conto suo?

É una scelta personale perché comunque è un cambiamento radicale in tutti gli aspetti. Ad esempio, però, io mi sento con Nicole, con Greta (Ramon ndr) e con altre ragazze. Dall’altra parte, è anche importante – secondo me – viverlo tutte insieme, è un cambiamento così grande che, se lo vivi insieme, fa meno paura, fai più comunità e ti conforti a vicenda, ti supporti. La lingua diversa, non conosci nessuno e viverlo insieme può aiutare davvero.

Torniamo un attimo all’ultima stagione italiana che è stata condizionata dall’infortunio alla spalla: innanzitutto come stai e come è stato vivere questo periodo lontana dal campo?

Mi sono fatta male a gennaio, a campionato inoltrato, era  ancora apertissimo. Però diciamo che sia Empoli che la squadra mi ha supportato tantissimo. Mi hanno portato in panchina in Coppa, non erano obbligati a farlo, però sono stati molto attenti anche dal lato umano. L’anno ai box ti fa crescere a livello personale, la determinazione, perché vivere comunque fuori dal campo vuol dire lavorare solamente in palestra, fare pesi, essere focalizzati sula riabilitazione non è assolutamente semplice. Credo che sia un momento costruttivo per un’atleta.

Elisa Leghissa - Italia

Com’è stato conoscere questa nuova realtà a distanza?

Appena mi hanno pubblicato sulla pagina del sito di Sacramento, mi ha iniziato a seguire tutta la squadra e mi hanno contattato loro. Un paio le conosco, ci siamo sentite e sembrano super. Mi hanno fatto fare tutte le video call con le ragazze e con tutto lo staff. Ho visto delle cose assurde, è tutto bellissimo. Le ho sentite così, ci ho parlato e so chi sono, diciamo. Sembra il posto più cordiale del mondo questa università, veramente carini.

Ti sei fatta un’idea di che tipo di squadra sarà e quali obiettivi avrà?

C’è un ungherese e un’altra europea (l’olandese Benthe Versteeg ndr). Adesso ci hanno appena cambiato di conference, dalla Big Sky alla Big West. Mi hanno detto che la conference è più difficile, però cambiarla era un loro obiettivo che hanno raggiunto. E so che vogliono puntare assolutamente a essere tra le prime nella conference, per poi fare una buona post-conference e arrivare alla March Madness.

Parliamo del NIL, che è la possibilità per voi giocatrici di guadagnare soldi che ovviamente in Italia non vedreste mai. Farà in modo che la strada dei college sarà sempre più battuta dalle italiane e dalle giocatrici europee?

É un motivo che arricchisce l”esperienza che già fai in generale: imparare una nuova lingua, conoscere nuove persone, vedere una nuova cultura. Poi arriva quello che per me è l’ultimo tassello importante all’interno di tutto un contesto attraente. Il basket in Italia sta vivendo un periodo di degrado, tantissime squadre stanno chiudendo in A2, non ci sono squadre che vogliono iscriversi in A1. All’interno di un processo di recruit è importante, è un fattore invitante perché alla fine in Italia non esiste una cosa del genere e aiuta ad invogliare ad andare via dall’Italia e dall’Europa.

Che tipo di giocatrice sei e su cosa pensi di dover lavorare?

Sono una giocatrice abbastanza concreta che punta quasi tutto sulla difesa. In America mi vogliono rendere più un esterno perché comunque i fisici in America sono completamente diversi. In Italia ho sempre giocato da 4-5, a Basket Roma ho giocato tutta la stagione da 5 perché non avevamo lunghe. Io voglio giocare da esterno, mi hanno detto che mi svilupperanno da ala piccola. Spero di riuscire a velocizzarmi sia nel tiro che nel tiro da palleggio e nelle situazioni in movimento. É un’idea che mi piace molto.

Il basket femminile in America sta esplodendo ed è è straseguito, come ti fa sentire? 

Per me è una responsabilità perché se ti vedono così tante persone, c’è un po’ di timore. Allo stesso tempo è assolutamente invitante essere vista da così tante persone, è accattivante e bellissimo. É veramente tanto seguito il campionato, mi hanno detto che ad esempio a vedere le partite ci sono più di tremila persone. Tutte quelle persone in Italia a vedere un’A2 mai nella vita. Se ce ne sono duecento sono tante. Sicuramente è bellissimo.

Se tra un anno esatto ci risentiamo per un’intervista, saresti contenta se fosse successo cosa? 

Sicuramente di aver raggiunto i miei obiettivi personali, di migliorare, di essermi trovata bene nell’ambiente americano, nella nuova cultura e nella vita del campus, che è comunque una vita diversa rispetto a quella della foresteria. Di essermi integrata nella squadra.

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