Ritornare da un infortunio, trasferirsi dall’altra parte del mondo e provare una nuova esperienza. Non è stato un anno semplice per Fiamma Serra, che ha dovuto vivere uno dei momenti più complicati della carriera di un’atleta – il rientro da un’operazione al ginocchio che l’ha tenuta al box per quasi un anno – insieme a uno dei momenti più complicati della vita di una persona in generale, e cioè capire se rimanere in Italia oppure andare altrove.
Per questo, la sensazione di trovare una nuova casa, seppur a 20mila chilometri di distanza, è stato importante per Serra che ci ha raccontato le sue origini da cestista, il periodo dell’infortunio e il primo approccio alle Hawaii.
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Originaria della Liguria e cresciuta cestisticamente in Lombardia, ora alle Hawaii. Con il basket com’è scattata la scintilla e com’è andato il tuo percorso a livello di gioco fin qui?
Il mio percorso cestistico inizia a sei anni perché semplicemente una delle mie maestre della scuola elementare aveva una sorella che allenava nel mini-basket. Vedendomi molto alta, aveva detto ai miei genitori di farmi provare. Una volta provato, ho continuato. Inizio in Liguria, all’Audax San Terenzo e faccio dal mini-basket all’under 13 perché, quando avevo 12 anni, vengo cercata da Costa Masnaga. Decido quindi di lasciare casa perché hanno proprio un programma di crescita per i giovani, ti prendono da giovane e ti fanno crescere e io mi sono trovata molto bene. Sono cresciuta molto in questi anni grazie a loro.
Quasi due anni fa hai avuto un grave infortunio al ginocchio che ti ha costretto all’operazione. Com’è stato quel periodo e quanto è stato complicato continuare a credere nel tuo sogno quando eri ferma?
É stato un periodo tosto, perché è arrivato nel picco della mia crescita, non solo a livello di gioco ma anche personale. Mi sentivo più sicura, più pronta, ero il capitano dell’Under 19, avevo la possibilità di andare in nazionale con le mie pari-età – allenata dal mio coach a Costa. Sentivo che era il mio anno e subito ad ottobre mi arriva questo infortunio. Il problema non era fisico, ti operi e fai fisioterapia non è un problema, non erano cose che mi spaventavano. É stato difficile a livello mentale: arrivare tutti i giorni in palestra, vedere le tue compagne allenarsi o guardarsi le partite sugli spalti, era molto forte a livello emotivo. É stato ancora peggio il rientro a settembre scorso. Non pensavo fosse così difficile, tutti mi avevano avvertita che sarebbe stato pesante a livello di testa, ma non credevo perché sono sempre stata una che non crede a queste cose. Ero tranquilla, ma ogni volta che scendevo in campo – perlomeno in A2 – non riuscivo a giocare come volevo, avevo l’ansia. In Under 19 era diverso: mi trovavo meglio, forse sentivo più responsabilità e dovevo dimostrare quello che sapevo fare. Invece in A2 col pubblico entravo in una bolla in campo ed era molto difficile. Non è stato un momento semplice.
C’è stato qualcosa di positivo in questo periodo lontana dal campo?
La cosa bella che puoi trarre da questa cosa dell’infortunio è il tempo che ho avuto per dedicarmi alle persone a cui volevo bene. Mi sono operata prima di Natale e poi ho avuto due settimane per stare a casa e stare insieme a famiglia, parenti e agli amici in Liguria. Anche nella sfiga ho avuto delle cose positive, tante persone che mi sono state vicine. Dalle mie compagne di squadra agli allenatori, i preparatori – soprattutto loro, sono stati super. Quindi, diciamo che la cosa positiva è stato vedere l’appoggio che sai di avere anche quando eri campo, ma da infortunati lo senti in prima persona.
Arriviamo agli USA: l’idea dell’NCAA è venuta a te oppure ti sono arrivate offerte dai college?
L’idea dell’America l’ho sempre avuta, da quando conosco il mondo americano mi ero sempre detta che ci volevo andare. Fino all’infortunio ero molto convinta, lì ho rivalutato la scelta. Ero molto intenzionata ad andarci finito il percorso delle scuole superiori in Italia e provarci, l’infortunio mi ha destabilizzato. Non mi sentivo pronta, credevo mi servisse molto più tempo per riprendermi e che, se fossi andata, non sarei stata pronta perché lì il livello fisico è molto più duro e tosto. Avevo completamente abbandonato l’idea. Mi sono interessata a cercare le squadre a dicembre/gennaio, era molto tardi. Sono stata una delle ultime a prendere questa decisione. Non sono arrivate le offerte ma mi ha aiutato Antonia Peresson (ex guardia di Georgia Tech, ora all’Alpo Basket) con la sua agenzia G&G che faceva da tramite con le squadre mandando video, statistiche e analisi alle squadre che poi si sono interessate. Ho fatto le call con loro e quando sono arrivate le borse di studio ho preso la mia decisione.
Vieni da una generazione di giocatrici che è molto interessata agli Stati Uniti, quanto è importante vivere insieme con le altre questa situazione?
Il fatto di avere sia compagne di nazionale che compagne di Costa qui in America mi aiuta molto. É una cultura diversa, è tutto diverso e in certi momenti non capivo se il problema ero io e quindi molte volte le ho cercate per confrontarmi per capire se fosse una situazione analoga per tutte. Tuttora lo faccio e chiedo alle altre come funziona da loro e ci diamo i consigli su come affrontare le cose. Siamo nella stessa situazione ed è molto utile parlarne.
Quali squadre ti hanno contattato e cosa ti ha fatto scegliere Hawaii, oltre al mare?
Diciamo che durante il recruit sono arrivate molte offerte, sia high major che mid major. Non tutte mi hanno offerto la borsa di studio, in cinque l’hanno fatto. Ne avevo due dal New Mexico, una in Texas e una in Virginia e ho scelto Hawaii perché dalla prima chiamata ho sentito una sensazione di casa. Non ho problemi a vivere lontano da casa, perché sono sette anni che non vivo più con la famiglia in Liguria e sono partita. Però un conto è essere in Lombardia ed essere a tre ore da casa, un conto è andare in America. Stavo cercando un posto dove ci fosse un ottimo programma di crescita, non volevo arrivare in una squadra già completa dove ci sono le cinque forti che sono in quintetto e giocano solo loro.
Volevo una via di mezzo: una squadra che non fosse né troppo alta, né troppo bassa dove avevo la possibilità di esprimermi e giocare magari pochi minuti al primo anno e mano a mano andare a salire e dove ci fosse un programma di continua crescita. Questo è il motivo tecnico per cui ho scelto Hawaii, poi sin dalla prima chiamata ho avuto la sensazione di famiglia ed è stato importante per me, dovendo andare molto lontana da casa volevo andare in un posto che almeno mi dava quell’impressione. Qui è così, c’è un ambiente molto famigliare: nella nostra squadra ce n’è solo una che viene dalle Hawaii, quindi tutte veniamo da fuori, chi dall’Australia, chi dalla Nuova Zelanda. Bisogna per forza creare quel tipo di ambiente perché le vedi tutti i giorni. Con le altre università non ho avuto subito lo stesso impatto. Ovviamente anche il posto ha fatto la sua parte: l’esperienza non è solo cestistica, ma è anche un’esperienza di vita e che ti porti dietro. Meglio essere in un bel posto.
Che corso di laurea hai scelto?
Ho scelto come major psicologia. L’avrei scelta anche se fossi rimasta in Italia perché è quello che mi piace, è un mio interesse. Mi trovo bene ad ascoltare le persone e a dare dei consigli. Può essere una stupidaggine, ma ho sempre avuto feedback positivi. Tutti i miei amici vengono da me per parlare perché sanno che gli so dare un consiglio e fargli vedere una situazione in un altro modo. Mi piace l’idea di alleggerire le persone.
Prima di Hawaii, facciamo un piccolo passo indietro: raccontaci l’ottima stagione di Costa Masnaga, che ha avuto però un finale un po’ amaro.
É stata una stagione positiva. Con una squadra nuova, abbiamo raggiunto ottimi risultati. Sia in Coppa Italia che in Campionato, è mancato lo sprint finale, però a livello di squadra si può dire un’ottima stagione. A livello personale ho avuto molta difficoltà al rientro dall’infortunio: in Under 19 avevo molto spazio e mi trovavo bene in alcune partite, mentre in A2 non ho avuto tanto spazio perché c’erano altre giocatrici davanti a me e poi era difficile capire a livello mentale come stavo. All’inizio ogni volta che entravo in campo, mi bloccavo, mi veniva da piangere e automaticamente tornavo in panchina. Capisco che anche dalla parte della panchina era difficile mettermi in campo. Non ne faccio una colpa a nessuno, riconosco i miei limiti e capisco la gestione. C’è stata una partita che mi ha reso felice, eravamo molto corte sotto canestro, contro San Giovanni Valdarno, dove ho giocato bene per dieci minuti e mi son sentita tranquilla. Quando non lo ero, non entravo nella partita.
L’idea che ti eri fatta sull’NCAA poi è stata confermata una volta che sei arrivata?
In realtà non avevo un’idea preconfezionata dell’NCAA in sé, non la seguivo troppo, seguivo più l’NBA o la WNBA. Mi ero fatta un’idea più sulle vibes americane, sul loro stile, che era molto diverso da come sono io. Sono una tipa tranquilla, calma, se faccio qualcosa di eclatante non reagisco, mentre qua ci sono tante urla, incitamenti. É un clima che mi piace vivere, ma ci devo ancora entrare dentro. Vedendo anche video e foto di alcune ragazze italiane lì, notavo quello.
Parliamo del NIL, che è la possibilità per voi giocatrici di guadagnare soldi che ovviamente in Italia non si trovano. Quale ruolo pensi che avrà nel processo di recruiting?
Riguardo al NIL, spero vivamente che non sia uno dei motivi per cui una ragazza viene qui in America. Mi sembrerebbe assurdo perché quando prendi questa decisione non ha senso focalizzarsi sui soldi, quelli ovvio che servano e che fa piacere essere pagati per una cosa che ami e che speri diventi il tuo lavoro, in realtà già lo è. Però spero che non ci si focalizzi su questo: a priori, anche se ci dessero zero euro, dovresti venire perché è un’esperienza che ti dà tantissimo. Non ha senso per me utilizzarlo come motivo principale per venire qua, è ovvio che lo tieni in conto, però deve essere l’ultima cosa a cui pensi.
Che tipo di giocatrice sei e su cosa pensi di dover lavorare in America?
Sono sempre stata una giocatrice che gioca molto per gli altri e poco per me stessa. Preferisco fare dei buoni blocchi, dei buoni passaggi per fare segnare un’altra, che comunque è una cosa positiva. Allo stesso modo, quando io ho la palla in mano ci sono situazioni in cui dovrei prendere più coraggio e andare a finire io al ferro. Vorrei migliorare questo aspetto e mettermi più in proprio e poi lavorare sulla fisicità. Sono molto alta e molto magra e spero di riuscire invece a mettere su massa.
Il basket femminile in America sta esplodendo e noi qua in Italia abbiamo appena vissuto una prima parte di estate meravigliosa. Giocherai su ESPN l’anno prossimo, come ti fa sentire?
Ora come ora non ci voglio pensare a ESPN! Già ho visto l’arena in cui giocheremo ed è grande, ci sarà una marea di gente a vederci e a me purtroppo ancora influisce. Non sono ancora così matura da riuscire a dividere il pubblico e il campo. Un po’ mi mette ansia, però spero di migliorare anche da questo punto di vista.
Facciamo che agosto 2026, tra un anno esatto, ci risentiamo sempre per un’intervista. Saresti contenta se fosse successo cosa?
Non so cosa potrei dirvi tra un anno. Sicuramente spero di aver preso qualche chilo, però per il resto penso solo a vivermi l’esperienza e quello che sarà sarà.