Al di là dei modi affabili, dei vestiti eleganti e dei paragoni con George Clooney, Jay Wright non è mai stato il tipo innamorato dei riflettori, men che meno se posto di fronte al rischio di rubarli ai propri giocatori. Come emerso di recente, l’ormai ex coach di Villanova aveva deciso di lasciare la panchina dei Cats già durante il torneo della Big East, ma si è impegnato al massimo nel non lasciare trapelare nulla, così da non deviare l’attenzione dai suoi ragazzi – in particolare due pilastri come Collin Gillespie e Jermaine Samuels, al loro ultimo inseguimento di un titolo. Insomma, era scontato che Wright, un giorno, avrebbe salutato senza fanfare e parate. Meno lo era che lo facesse ad appena 60 anni compiuti.
In tante interviste post partita di quest’anno, la stanchezza era evidente e la sua voce un po’ più roca del solito, ma queste sono cose alle quali non si fa davvero caso se non dopo. Specie quando è l’interessato ad ammetterlo: “I wasn’t at the top of my game”, ha detto l’allenatore visibilmente commosso nella sua conferenza stampa d’addio, sottolineando anche come invece il suo staff lo fosse abbastanza da aiutare la squadra a raggiungere la quarta Final Four della sua gestione. Il che può far ben sperare chi è preoccupato per il futuro del programma.
Jay Wright è un grande di questo sport. Per risultati ottenuti (due titoli nazionali è roba per pochissimi) e per la personalità impressa sia nel programma da lui gestito sia nell’immaginario di tanti fan del college basketball, i quali hanno trovato qualcosa da ammirare in lui e nella sua Villanova. Un grande per l’intelligenza, l’intuito e la passione che gli hanno permesso di cambiare in parte il volto della pallacanestro universitaria attraverso il suo stile di gioco e di reclutamento. Un grande che ha reso grandi dei giocatori che, in tanti casi, non sarebbero diventati tali senza Villanova. Giocatori iconici nei gesti e nelle gesta, dai tuffi in tribuna di Ryan Arcidiacono al gioco in post-up da lungo di Jalen Brunson, fino a “The Shot” di Kris Jenkins. Iconici e dalla postura marziale in campo come il loro coach, che sempre verrà ricordato come quello che vinse un titolo NCAA sulla sirena senza esultare come un pazzo, ma anzi allargando le braccia e scusandosi col collega rivale, Roy Williams. E, ironia della sorte, Wright è arrivato all’epilogo della propria carriera portando segni di stanchezza simili a quelli di Ol’ Roy.
La struttura tradizionale degli staff nel college basketball sta rapidamente diventando inadeguata dinanzi al ciclo di reclutamento – già prima affatto rilassante – rivoluzionato nei suoi ritmi e nelle sue priorità dal portal, dalla one-time transfer rule e dall’introduzione imperfetta dei NIL. Qui non ci sono general manager e figure simili: l’head coach, col peso enorme di responsabilità di cui si fa carico, è il primo a farne le spese. Wright, pur mai respingendo in principio il nuovo che avanza, ha ammesso più o meno esplicitamente di come questi fattori abbiano influito sulla sua scelta. Magari non per senso d’inadeguatezza, bensì per mancanza di stimoli nel dover adattarsi a un orizzonte così diverso ed estraneo. C’è ancora chi resiste, anche a dispetto di età più avanzate di quella di Wright, ma forse dobbiamo abituarci a vedere addii simili sempre più frequentemente nei prossimi anni.
Jay Wright lascia la panchina di Villanova con la soddisfazione di chi ha costruito qualcosa di grande e vedendo esaudito il suo desiderio di lasciare tutto questo suo lavoro in eredità a un capoallenatore che fa parte della famiglia Cats, che è giovane abbastanza per stare al passo coi tempi e che sarà spalleggiato da uno staff tecnico intatto nella sua composizione rispetto a quella dell’annata appena passata. Insomma Kyle Neptune sembra la soluzione perfetta per dare continuità al passato recente del programma mantenendolo in scia coi nuovi tempi. Oltre a essere lui stesso ambasciatore della culture di Wright, ha anche già avuto un assaggio di cosa significhi essere head coach in Division I. Dopo dieci anni passati a Philadelphia di cui otto come assistente di JW, Neptune ha passato l’ultima stagione all’elmo di un posto disastrato come Fordham, facendo benissimo (record 16-16, cinque vittorie in più di quante conquistate dai Rams nell’insieme delle due annate precedenti).
Neptune sembra avere i mezzi e le conoscenze necessarie per mantenere salde le fondamenta gettate nello scorso ventennio, ossia fare la voce grossa in lungo e in largo nella East Coast quando si tratta di reclutare i giocatori che meglio rientrano nei parametri tecnici e caratteriali tradizionalmente amati da Villanova. Giocatori che prima di tutto sanno tirare e difendere sui cambi, che sono disposti a mettere il proprio ego in secondo piano e a sposare un progetto tecnico di lungo termine.
Ci vorrà pazienza però, perché l’orizzonte immediato sembra poter riservare alcuni singhiozzi per il primo paio d’anni della gestione Neptune. Innanzitutto sul fronte recruiting: ha incassato conferme importanti per il 2022 con Cam Whitmore, Mark Armstrong e Brendan Hauser, ma Nova tradizionalmente lavora a lungo e in anticipo con le sue reclute dalle high school e la classe 2023 è per ora composta interamente da una serie di caselle vuote (complice anche il mancato sì di Miro Little, diretto a Baylor) e che rischiano di essere riempite più tardi e in maniera meno ottimale di quanto Neptune desideri. Insomma, il modo in cui si muoverà fra primavera ed estate potrebbe avere grosse ripercussioni sui prossimi anni. Battere la concorrenza di Kentucky e Tennessee nel corteggiamento del 5-star e prodotto locale Justin Edwards, ad esempio, manderebbe un segnale di grande importanza. Qualcosa del tipo: Jay Wright non c’è più, ma Villanova sì.