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Intervista con Davide Moretti, l’eterno insoddisfatto di Texas Tech

Autore: Riccardo De Angelis
Data: 22 Gen, 2019

NGU, Never Give Up. Questo è il motto di Davide Moretti, un mantra ripetuto nella testa e appuntato in ogni angolo, onnipresente nei battiti di ogni sua giornata di giocatore e d’individuo. La point guard di Texas Tech non è indietreggiato di un centimetro durante la sua permanenza a Lubbock e ora si sta imponendo come una delle colonne di una squadra che, a sorpresa, ha già fatto molta strada e che può spingersi davvero lontano.

«Non sono mai soddisfatto della persona che sono, sia dentro che fuori dal campo. Cerco di migliorarmi sempre. Non vado mai a letto col dubbio di non essere migliorato almeno di un 1% rispetto al giorno precedente». Si autodefinisce eterno insoddisfatto, il Moro, ma è proprio in ragione di ciò che ha più di qualcosa di cui essere contento, oggi.

Siamo andati a fargli un po’ di domande, parlando del momento attuale dei Red Raiders, della vita nella squadra e ciò che sta intorno, ovviamente passando per il suo percorso di crescita personale, che è sempre in divenire.

Una stagione praticamente senza macchie e ora due sconfitte di fila, con Iowa State e Baylor. Siete voi in flessione o è solo la Big 12 a essere troppo equilibrata?

Mi verrebbe da dire che si tratta della Big 12, che è sempre stata una delle conference più difficili ed equilibrate. Non è bello perdere due partite di fila, ma stiamo già pensando alla prossima partita e ci siamo già messi alle spalle queste due sconfitte.

Avete la miglior difesa della Division I, ma il rendimento dell’attacco non è stato di un livello paragonabile a quello della retroguardia. Nella partita con Baylor, per esempio, avete commesso molte perse: quali sono le chiavi per superare questo limite e, finalmente, diventare più efficienti e continui nella metà campo offensiva?

Siamo una squadra molto giovane, molto diversa rispetto a quella dell’anno scorso. Giochiamo con uno stile al quale devi essere abituato. Nella squadra dell’anno scorso, la maggior parte dei giocatori giocavano insieme da almeno due anni, erano più familiari con la motion offense. Quest’anno ci sono molti freshmen e grad transfer che si trovano in un contesto completamente nuovo, quindi è normale secondo me che ci siano state partite in cui il nostro attacco si è fatto vedere e altri in cui abbiamo fatto più fatica. Siamo ancora in costruzione, sappiamo dove possiamo migliorare. Questo mi fa ben sperare per il futuro.

C’è stato molto ricambio nel roster e a inizio stagione erano in pochissimi a darvi credito: pensavi effettivamente che poteste diventare così forti così in fretta? Qual è il vostro segreto?

C’è da dire che non abbiamo ancora fatto niente. Abbiamo qualche primato, sì, siamo stati in Top 10, ma la stagione è lunga. Sinceramente non pensavo che saremmo stati così forti. Cioè, sapevo che fossimo una squadra molto talentuosa, però era la chimica a spaventarmi più di tutto. Pensavo che ci volesse un po’ più di tempo. Siamo stati bravi a diventare subito squadra. Lavoriamo tosto ogni giorno: questo è il nostro metodo, più che un segreto.

Rispetto all’anno scorso, hai un ruolo da titolare e le tue statistiche offensive sono schizzate in alto. La stat più eclatante: nelle percentuali di realizzazione al ferro sei passato dal 10% al 56.5%. Cos’è cambiato in un anno nel tuo modo di attaccare il canestro?

Il tiro da tre è una delle mie caratteristiche, ma non mi sono mai visto come un tiratore puro e basta. Sapevo che per giocare a questo livello, per attaccare il ferro a questo livello, avevo bisogno di qualche chilo in più e di dover lavorare. Quest’estate sono stato in palestra dalla mattina alla sera e mi sono allenato molto sulle mie soluzioni al ferro. Il primo anno mi sono messo a disposizione della squadra: serviva un tiratore, un cambio del playmaker e penso di aver svolto quel ruolo decentemente.

I miglioramenti però più significativi sono probabilmente quelli che hai compiuto in difesa…

La difesa è uno degli aspetti in cui sono migliorato di più, su questo non c’è dubbio. La gente inizia a notarlo e questa cosa mi fa piacere. I progressi vengono con l’esperienza, allenandosi tutti i giorni con atleti di un certo tipo, giocando contro atleti di un certo tipo. Dopo un po’ il tuo corpo e i tuoi tempi di reazione si adattano. Poi ci devi mettere il lavoro e la determinazione per diventare un buon difensore. Oltre al tempo speso in palestra per aumentare la mia forza nelle gambe e la mia rapidità, ho speso molte ore nello studio della difesa, studiando le guardie europee nella NBA e come difendono su quelle americane. Ho studiato il loro movimento di piedi e come cercano di reagire prima che l’attaccante agisca, cogliere quell’attimo di reazione fra attacco e difesa.

 

L’anno scorso sei salito di livello durante la March Madness e quest’anno hai scalato un altro gradino proprio con l’inizio di stagione nella Big 12: viene da pensare che se la posta in palio non è alta, ti annoi.

Ho sempre affrontato ogni partita come se fosse la più importante. Certo, poi le partite della Big 12 e della March Madness richiedono maggior sforzo e concentrazione, è poco ma sicuro.

Quest’anno l’unica partita in cui ti abbiamo visto in difficoltà sul piano fisico è stata quella con Duke: se tu dovessi affrontarli una seconda volta, cosa dovresti fare per avere un impatto che sia nella media rispetto ai tuoi standard attuali?

Più che dal punto di vista fisico, mi sento di dire di aver giocato una partita al di sotto delle mie aspettative. Che ci siano dei rimpianti su come abbiamo giocato quella partita, non ci sono dubbi, perché l’avevamo in mano e l’abbiamo completamente buttata. Dal punto di vista individuale, mi sento di dover migliorare sul ball handling come prima cosa, perché ho commesso delle perse che non mi aspettavo. Sono sicuro che, semmai ci rigiocheremo contro, sia io che la squadra saremo pronti a non commettere gli stessi errori.

Un articolo del Wall Street Journal sostiene che scontrarsi con Zion Williamson equivale a essere investiti da un bus: ci spieghi come hai fatto a prendere quello sfondamento senza farti un graffio? O c’erano effettivamente i graffi?

Sì, l’avevo letto anch’io questo articolo, molte persone su twitter mi avevano taggato in quanto erano sicure che avrei preso uno sfondamento da Zion. A dirla tutta, avevamo anche fatto una scommessa in squadra: il nostro allenatore l’aveva buttata lì, ci aveva un po’ stuzzicato su chi sarebbe riuscito a prendere uno sfondamento da Zion. Non ho mai avuto paura di nessuno, quindi non ci ho pensato due volte a cercare lo sfondamento, anche se devo dire che è stato bello duro [ride, ndr], questo non posso negarlo. Per quanto riguarda i graffi, ho picchiato sul parquet in maniera più violenta di altre volte, però mi sono rialzato subito. È stato un contatto duro, sì, ma stavo già pensando alla prossima azione.

 

Chris Beard ha fatto talmente tanto a Texas Tech da poter concorrere al premio di Coach of the Year: da suo giocatore, qual è secondo te il suo pregio maggiore come allenatore? Se dovessi riassumere la sua personalità in una parola, quale sarebbe?

La prima parola che mi viene in mente è “leader”. È un vincente, vuole migliorare, vuole vincere contro chiunque gli si pone davanti. Questo è stato il motivo per il quale ho scelto di venire qua, mi ci rivedo tanto nella sua mentalità, in quel che pensa, nel come vive le giornate. Anche io sono una persona che non riesce a dormire la notte se non è sicuro di non aver sprecato una giornata. Lo ammiro, ha tutto il mio rispetto.

Jarrett Culver sta un po’ seguendo le orme di Zhaire Smith in quanto a capacità di far parlare di sé in ottica Draft: come lo descriveresti come compagno di squadra? Che tipo è fuori dal campo?

Jarrett è il compagno di squadra con cui mi frequento di più. Lo scorso semestre avevamo le stesse classi, quindi ci allenavamo allo stesso orario, avevamo gli stessi movimenti. Facevamo tutto insieme. Questa cosa mi ha molto avvicinato a lui, molto più rispetto all’anno scorso. È un ragazzo super, uno che sta dalla mattina alla sera in palestra, che ama migliorarsi. È veramente umile, non va oltre le righe. Penso che sia un ottimo compagno di squadra e fuori dal campo è molto simpatico, ci troviamo molto bene e questo ci aiuta molto anche in campo.

A proposito di vita nel campus, qual è l’aneddoto più divertente che ti è capitato da quando sei lì?

Nella scorso gennaio mi hanno rubato la bicicletta. Era super, perché questo campus è enorme e muoversi in bicicletta era qualcosa di speciale [ride, ndr]. Ora prendo l’autobus o giro a piedi.

Texas Tech storicamente non è un posto in cui si è vinto molto ma i risultati che avete raggiunto stanno creando tanto tifo e calore attorno alla squadra: come descriveresti l’ambiente attuale a qualcuno – poniamo, un tuo connazionale – che non conosce la realtà del college basketball?

Abbiamo creato veramente un ambiente favoloso, eccezionale, non saprei nemmeno come descriverlo perché in Italia non ho mai visto tanto tifo per una partita di basket. Ero abituato a Treviso, una piazza davvero importante, in cui il palazzetto era pieno tutti i giorni, ma qui parliamo di 15mila persone a partita, cioè tre volte il PalaVerde. È difficile fare confronti. In questi due anni, nelle partite di non-conference, sono passato dal vedere 8mila persone al vederne 11-12mila. E quelle sono partite in cui abbiamo vinto anche di 30-40 punti, quindi la gente magari si annoia e se ne va, e invece non è stato così. Sono veramente felice, orgoglioso di giocare davanti a un pubblico così caloroso e che riempie il palazzetto al di là della squadra che viene a giocare qua.

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