Ho iniziato a seguire la NBA nel 2006. Non prestissimo, ma era il periodo d’oro in cui hanno calcato il parquet alcuni dei più grandi giocatori della storia. Erano anni in cui Shaq e Wade erano ai vertici con Miami, in cui Garnett era leader in una Minnesota che non sapeva nemmeno chi fosse Karl Anthony Towns e in cui LeBron James non si sarebbe mai sognato di lasciare Cleveland e, soprattutto, di giocare con la maglia dei Lakers. E poi c’era lui. Kobe. Dalla maglia con l’8 a quella col 24, avevo fatto in tempo ad assistere alla cavalcata da 81 punti contro i Raptors e a vedere i suoi capelli afro accorciarsi fino a diventare un taglio tattico cortissimo. I tiri impossibili, le schiacciate e i Lakers non più forti come erano poco tempo prima. Kobe mi è rimasto impresso nella mente, fin da subito.
Poi da appassionato mi sono avvicinato sempre più, ed ecco che sono arrivati i Celtics. La squadra del cuore, un amore sbocciato e sempre vivo. E Bryant, il fenomeno, divenne per alcuni anni il nemico usurpatore del trono biancoverde. La Gara 7 delle Finals del 2010, vista in diretta, aveva due facce: i Celtics battuti da lui. E la rabbia per la sconfitta che si mescolava con l’ammirazione di quella foto iconica. Cappellino in testa, rivolto ai tifosi dello Staples, il pallone sottobraccio e una pioggia di coriandoli a celebrare un titolo che lo avrebbe inserito nella leggenda. Poi ci sono state le Olimpiadi: capo carismatico di un pollaio pieno di galli e felice vincitore dell’Oro a Pechino, nel 2008, il giorno del suo compleanno.
Infine è arrivato il ritiro e il mondo si è commosso. Annunciato a inizio stagione, con la magica Dear Basketball, la lettera di commiato alla pallacanestro: Black Mamba ha scritto una nuova pagina della pallacanestro segnando 60 punti contro i Jazz nell’ultima partita in carriera. Ricordo che quel giorno mi alzai presto per andare a prendere il treno per andare in università. Accesi la tv e su Sky Sport facevano la partita in diretta, alle 6 di mattina. Tenni acceso lo schermo, pronto ad uscire. Ma non volevo lasciarmi alle spalle la porta di casa senza avere visto un suo canestro. Lui tirava e sbagliava, io a incitarlo: forza, segna che devo andare! Infine, il tiro degno di una sceneggiatura di Hollywood: Kobe batte Gordon Hayward e tenta una tripla. Canestro. Esulto e via di corsa per andare in stazione.
Il riconoscimento più bello, però, per me non è stato quello del Larry O’Brien o dei premi di MVP, nemmeno gli ori olimpici. No, il momento più bello della mia personale storia d’amore con Kobe è stato l’Oscar 2018. Bryant: l’uomo che ebbe a che fare con il cinema fin dal 2011, quando per lo spot delle scarpe “Black Mamba IV” collaborò con il Machete Danny Trejo, Bruce Willis e Kanye West, al fianco della guida di Robert Rodríguez. Bryant è stato così il primo giocatore NBA a vincere un Academy Award.
La trama di quel corto era proprio Dear Basketball e Bryant era pronto a renderla un capolavoro. Alzò il telefono e, con la sua faccia tosta, convinse un animatore e un compositore a rendere la favola ancora più speciale. Glen Keane (animatore della Disney artefice dei disegni di Tarzan, La Bella e la Bestia e Alladin tra i tanti) e John Williams (il compositore, per essere riduttivi, delle colonne sonore di Indiana Jones, E.T. e Star Wars), da leggende quali sono, capirono che un’altra leggenda li aveva scelti per il suo scopo. E il risultato non poteva che essere, ovviamente, leggendario.
Kobe lo vidi una volta a Milano, nel 2016. All’Ippodromo del Galoppo sfoggiò il suo amore per l’Italia, sua casa adottiva, la sua leadership e la sua concentrazione. Quasi ai limiti della stronzaggine. Ci salutò, ma non si dilungò; scostò la canotta di un tifoso come fosse una tendina estiva. Era lì per la sua Mamba Academy, era lì per questioni di sport. Non era venuto per fare il turista. Col senno di poi, sono momenti che fanno riflettere.
Ho riflettuto su come la vita sia un dono prezioso quando, alle 20 di una domenica sera, ho appreso la tragedia. Non quella del giocatore, non solo quella almeno. Ma quella di un uomo, di un padre. Di chi voleva iniziare la carriera di scrittore, scrivendo libri per bambini, spinto dal successo e dall’ispirazione che Dear Basketball aveva dato a tantissimi. La tragedia della scomparsa di chi il basket lo aveva vissuto come una missione dentro e, soprattutto, fuori dal campo.
Cercando di far sentire a loro agio i colleghi mettendosi al loro livello, parlando con Doncic in sloveno, con Belinelli e Gallinari in italiano, con l’amico eterno Pau in spagnolo. Complimentandosi su Twitter con il fratello LeBron, dopo il sorpasso in classifica a casa sua, a Filadelfia, con la sua canotta dei Lakers, il suo ultimo tweet.
Cercando anche di aiutare la comunità, il prossimo. Lui, a suo modo, lo ha fatto. Facendo commuovere tutti, facendo riflettere che i campioni sono più di cestisti, tennisti, calciatori. Sono uomini con aspirazioni, sogni che, se incanalati nel modo giusto, possono fare tanto per tanti.
Perciò, Kobe, grazie.
Heroes come and go. But legends are forever.