1983, la squadra che vive di schiacciate perde per una schiacciata degli avversari.
2025, la squadra che vive di difesa perde per la difesa degli avversari.
C’è un che di beffardo nel destino di Houston, rimasta ancora senza un titolo dopo aver perso la terza finale della sua storia. Ma se nel 1984 non ci fu nulla da fare contro la Georgetown di Pat Ewing, le due partite giocate da favorita contro NC State e Florida rimarranno per sempre nella memoria dei tifosi dei Cougars.
Destino beffardo per due coach superesperti che hanno perso contro due under 40: Guy V. Lewis, mitico allenatore di Houston per 30 anni, ne aveva 61 quando perse contro il giovane Jim Valvano, solo 37 anni quando nel 1983 portò NC State al secondo titolo Ncaa della sua storia. Kelvin Sampson ne ha 69 ed è stato battuto da Todd Golden, 39 anni, allenatore di Florida campione per la terza volta.

Akeem Olajuwon nella finale persa contro NC State
Avrebbe potuto essere la vittoria numero 800 per Sampson e invece quello che ha definito “l’incomprensibile” minuto finale della partita gli ha tolto la gioia di arrivare fino in fondo.
Ripercorrendo la sua carriera in Texas, però, non c’è ombra di dubbio alcuno che sia stata un successo. C’erano topi in gran quantità e spesso anche degli homeless che si fermavano a dormire in un incustodito Hofheinz Pavillion quando nel 2014 Sampson arrivò nella più importante università pubblica di Houston. “I just remember… the row I was sitting in, the chairs were all broken”, il suo ricordo del primo ingresso nel campo dei Cougars.
Ultima apparizione dei Cougars al Torneo? 1992. Ultima vittoria dei Cougars al Torneo? Semifinale contro Virginia alle Final Four del 1984. Non esattamente la panchina più ambita degli Stati Uniti, ma peraltro poco di meglio poteva chiedere un coach finito non in una, ma in due inchieste con violazioni ora considerate poco più di un furto di popcorn, ma che allora gli costarono una squalifica di 5 anni. Quando allenava a Oklahoma e poi a Indiana, Sampson fece telefonate a decine di giocatori per convincerli a venire a giocare nelle due università che ha allenato prima di Houston, pratica ora legale ma ai tempi vietata dall’Ncaa.
E così dopo sei anni passati a fare l’assistente in Nba, è tornato al suo mondo, il college basket. Tempo quattro anni e Houston ha chiuso la stagione nella Top 25, è tornata a vincere una partita nel torneo Ncaa (per poi arrivare alle Sweet 16 l’anno dopo), ha trovato i 25 milioni per rifare completamente un’arena depressa e deprimente e ha sostanzialmente rimesso Houston sulla mappa del college basket da dove era uscita dopo gli esaltanti anni del Phi Slama Jama con Akeem Olajuwon e Clyde Drexler, la spettacolare squadra di schiacciatori (e non solo) che arrivò a tre Final Four consecutive dal 1982 al 1984.
Dal 1984 ci sono stati trent’anni di depressione cestistica, una voragine fino all’arrivo di Sampson nel 2014 che cercava proprio un programma che doveva ripartire da zero, come la sua carriera. È stato un lavoro di ricostruzione di famiglia: Sampson ha chiesto e ottenuto che i suoi due figli lavorassero con lui. Kellen è il suo primo assistente o meglio, è l’Head Coach in Waiting, come recita il suo contratto. Nel quale c’è anche una simpatica clausola che prevede l’ingaggio di Sampson padre come consulente a 300mila dollari per 5 anni nel caso in cui Kellen diventasse head coach. Sua sorella maggiore Lauren è invece la Director of Basketball Operations ed è suo il ricordo dei topi dell’allora Hofheinz Pavillion, rinominato Fertitta Center dopo la ristrutturazione. A lei si deve gran parte del lavoro fatto fuori dal campo per rianimare un campus che di pallacanestro aveva smesso di parlare ed è stata lei la prima a correre ad abbracciare il padre dopo la sconfitta contro Florida.

Kelvin Sampson al termine della partita contro Florida
In campo ci ha pensato lui a far rinascere un programma morto e sepolto. Prima stagione con record 13-19, poi sempre sopra le 21 vittorie fino al record assoluto di quest’anno di 35-5 e seconda Final Four dopo quella del 2021, oltre a vari trofei nelle due conference, AAC e Big12. Ma vittorie a parte, ha fatto esattamente quello che un coach deve fare a una squadra di college basket: darle un’identità. “I know you want to be a head coach in the Nba but you were put on this earth to coach in college”, gli ha detto suo padre John W. Sampson due giorni prima di morire. Niente di più vero.
Sin da quando ha iniziato ad allenare per 16mila dollari a Montana Tech, i pilastri su cui si fonda la sua pallacanestro son sempre stati gli stessi: difesa, rimbalzi, durezza, disciplina. Il che vuol dire allenamenti tosti come in poche altre parti degli Stati Uniti e intensità assoluta in ogni secondo passato in campo. Altrimenti, c’è la panchina. E poi reclutamento vecchia scuola: nel transfer portal non si prende nessuna stella, ma solo pochi giocatori che servono per completare la squadra. Milos Uzan arrivato l’estate scorsa da Oklahoma ne è l’esempio perfetto.
Se non tenterà un’improbabile fortuna al Draft, sarà ancora lui la PG titolare dell’anno prossimo in una squadra che perderà due giocatori chiave come Lj Cryer e J’Wan Roberts ma che avrà ancora in quintetto Joseph Tugler ed Emanuel Sharp. Oltre a una classe di freshman guidata dal lungo Chris Cenac tra le migliori della nazione che dovranno imparare in fretta a giocare come si gioca a Houston con Kelvin Sampson. Che l’anno prossimo proverà di nuovo ad arrivare fino in fondo, per scrivere finalmente l’ultimo capitolo di una storia di successo.