A pochi giorni dall’inizio della March Madness, nella nostra rassegna speciale, abbiamo raggiunto un altro giocatore che ha fatto la storia del suo college e che ha calcato anche i parquet italiani: James ‘Scoonie’ Penn ha iniziato la sua carriera con gli Eagles di Boston College per poi approdare ai Buckeyes di Ohio State con cui ha raggiunto le Final Four. La chiave di questo successo? Il suo grande cuore e forza di volontà che hanno sopperito alla piccola statura. E se il presente racconta di una stagione incredibile per la squadra di Columbus, di cui ora è director of player development, il futuro di Scoonie sembra già deciso. Ecco cosa ci ha raccontato.
Ti abbiamo lasciato nel 2011 a Veroli, cosa hai fatto in questi anni?
La stagione a Veroli è stata l’ultima prima del ritiro. Al mio rientro in USA, mi sono dedicato alla radio e alla televisione: ho preso parte a programmi che parlavano di college basketball qui a Columbus, in Ohio, e per la CBS. Certamente è stato qualcosa di diverso rispetto a quello che avevo fatto fino a quel momento. Poi mi hanno offerto un posto qui all’Ohio State University dove mi sono laureato.
E infatti da luglio sei Director of Player Development per i Buckeyes; in cosa consiste il tuo ruolo e come sei entrato nello staff di Chris Holtmann?
È stata una serie di fattori che si sono incastrati alla perfezione: da una parte il cambio di allenatore presso l’ateneo e quindi la necessità di un nuovo staff e, contemporaneamente, il fatto che io fossi ad un punto della mia vita in cui mi sentivo pronto a fare questo passo. La possibilità di diventare un allenatore e di entrare nello staff di una squadra di college era da sempre un mio desiderio, ma volevo aspettare che mio figlio Dominiq crescesse un po’. E così, quando queste due situazioni hanno coinciso, ho potuto iniziare questa nuova esperienza. La descrizione del mio ruolo è lunghissima, ma il compito più importante è quello di stare vicino ai giocatori ed essere il loro mentore: mi sono trovato nella loro stessa situazione, capisco quello che devono affrontare fuori e dentro il campo, anche a livello accademico, e quindi il mio compito è quello di guidarli e seguirli.
Sei arrivato a Columbus dopo due brutte stagioni e il clamoroso licenziamento di coach Thad Matta. È stato difficile inserirsi nel programma dopo questa vicenda?
Vivo ad appena 15 minuti dal campus, e ho sempre seguito da molto vicino le vicende legate alla squadra. Conoscevo coach Matta, tra di noi c’era anche un buon rapporto, ma c’era bisogno di un cambiamento.
Come avete lavorato per ricostruire la fiducia all’interno del programma?
Come in tutte le cose della vita, solo grazie al duro lavoro e grazie ad un gruppo di ragazzi che è stato capace di stare ad ascoltare e seguire i nostri consigli. Ecco come abbiamo superato quella situazione e come siamo arrivati a una grande stagione.
Coach Holtmann ha avuto sicuramente grande impatto: qual è secondo te il suo più grande merito nel successo di questa stagione? Che tipo di gioco predilige e come ha impostato la squadra?
Direi che il suo punto di forza è la sua voce: è un allenatore che sa insegnare ai propri giocatori e sa farsi ascoltare. Parla molto ai ragazzi e con tutti noi. Dà molta importanza all’attacco: il nostro gioco si basa molto su passaggi e tiro; ma siamo consapevoli che tutto deve iniziare da una buona difesa e che da lì può nascere la possibilità di costruire un’azione vincente.
Ohio State ha disputato una stagione al di sopra delle aspettative (raggiungendo il terzo posto nella Big Ten con un record di 15-3), ma avete perso tre volte contro Penn State, l’ultima al torneo di conference. Cosa bisogna aggiustare in vista del Torneo?
Sì, la nostra regular season è stata molto positiva, ma l’ultima partita contro Penn State è da dimenticare. Abbiamo giocato male. Sicuramente dovremo rivedere quello che abbiamo sbagliato e quindi allenarci su questi aspetti, ma sono fiducioso che questa squadra può vincere qualche partita nel Torneo NCAA e togliersi qualche soddisfazione.
A parte Penn State che si è dimostrata una vera “bestia nera”, quali sono le squadre che vi danno più fastidio tecnicamente?
Difficile dirlo a questo punto della stagione. Ogni squadra può diventare pericolosa adesso e metterti in difficoltà. In un torneo con delle partite secche ogni squadra può trovare la partita vincente. Semplicemente non si può sapere: puoi solo sperare che in quella partita la tua squadra giochi il suo migliore basket e l’altra no.
Si è parlato molto di Keita Bates-Diop che ha fatto una grande stagione. Quale altro giocatore vi ha sorpreso in positivo?
Keita ha giocato molto bene, indubbiamente. Ma la nostra squadra può puntare anche su altri giocatori. Il primo su tutti è Jae’Sean Tate: non ha molto spazio sui giornali, ma è lui il nostro più grande guerriero, è lui che fa andare la squadra e ogni sua piccola azione è per noi fondamentale.
Parliamo un po’ di te e della tua carriera. All’inizio non avevi scelto Ohio State ma Boston College. Poi quando il tuo coach Jim O’Brien è passato a Ohio State lo hai seguito: qual era il legame tra di voi e cosa ti ha spinto a prendere quella decisione?
Io e coach O’Brien abbiamo avuto sempre un ottimo rapporto: mi ha visto giocare dal primo anno e il mio stile si sposava perfettamente con la sua visione del gioco. Anche in questo caso si è trattato di una perfetta combinazione di varie situazioni. Mi trovavo bene a BC, ma il gruppo iniziale che era riuscito a vincere la Big East non c’era più e sentivo che dovevo cambiare. Coach O’Brien stava andando a Ohio State e, quando ho visitato la scuola, mi è piaciuta e ho capito che avrei potuto costruire il mio futuro lì. Così ho deciso di passare a Ohio State.
Una decisione giusta se si pensa che la stagione 98-99 è stata sicuramente un grande successo per te: Final Four e Big Ten Player of the Year. Qual è il ricordo più bello di quella stagione?
Sicuramente la Final Four: i riconoscimenti e i premi sono stati numerosi quell’anno, ma arrivare fino alla Final Four era un mio grande sogno. Il ricordo più bello è quello legato alla vittoria su St. John’s alle Elite Eight. Subito dopo i festeggiamenti in campo, sono corso negli spogliatoi e sono scoppiato a piangere perché sapevo quello che avevo dovuto affrontare per arrivare a quel momento e realizzare quel sogno: trasferirsi poteva rivelarsi una scelta sbagliata, ero dovuto stare senza giocare per un anno e ho dovuto lavorare veramente duro. Quindi, quando quella partita è finita, per me è stata un’emozione grandissima, una gioia infinita.
Quando sei arrivato a Ohio State, molti erano preoccupati della possibile rivalità tra te e Michael Redd, invece siete riusciti a creare uno dei migliori tandem del college basket. Come descriveresti la tua relazione con lui?
Michael è un fratello per me: lavoravamo entrambi duramente, ci allenavamo nell’uno-contro-uno insieme, ci spronavamo, litigavamo…esattamente come farebbero due fratelli. Abbiamo avuto un rapporto bellissimo e continuiamo ad averlo: abitiamo vicini, ci vediamo spesso, anche perché viene alle nostre partite assieme ad altri giocatori della nostra squadra di quegli anni. Lui ha avuto una grande carriera nella NBA perché ha sempre lavorato duro, come lo faceva ai tempi del college e nutro un grande rispetto nei suoi confronti.
In un articolo sul Chicago Tribune hanno scritto che eri il più piccolo della squadra in statura ma quello con il cuore più grande: da dove deriva questo grande cuore?
Sì, sono decisamente d’accordo con questa definizione. Fisicamente non sono un giocatore molto alto, ma ho un grandissimo cuore: amo vincere e odio perdere, ed è per questo che in campo, come nella vita, ci metto tutto me stesso.
Come hai reagito quando l’Ncaa ha deciso di revocare tutte le vittorie di quegli anni dopo l’indagine su Boban Savovic?
Naturalmente mi è dispiaciuto, dato che è accaduto per dei motivi che non riguardavano noi giocatori o le nostre vittorie sul campo. E’ triste entrare nella Value City Arena e non vedere nessun stendardo relativo ai nostri risultati. Ma noi sappiamo quello che abbiamo fatto, come lo sanno tutti i nostri tifosi, e questo nessuno ce lo potrà togliere. Abbiamo anche gli anelli a dimostrarlo.
Nel 2000 sei stato scelto dagli Atlanta Hawks ma sei arrivato subito a Trieste. Quanto è stato difficile abbandonare il sogno NBA e come è stato il tuo impatto con l’Italia?
No, non potrei dire che è stata una scelta triste o difficile. Ci tenevo a finire nel draft e sono stato scelto dagli Hawks, ma in realtà è stata una mia scelta andarmene. Probabilmente ad Atlanta non avrei mai giocato e quindi quella di venire in Europa a giocare si è rivelata una buona scelta per la mia carriera. Inoltre, il campionato italiano si è rivelato sicuramente di alto livello e quindi è stato sicuramente bello poter prenderne parte. Mi ha aiutato molto a crescere come persona.
Hai passato molti anni nel nostro paese. Che ricordi hai del nostro campionato e qual è la squadra a cui sei più legato?
Ne ho molti! Ricordo che il mio primo anno, quando giocavo a Trieste, abbiamo affrontato la squadra di Manu Ginobili perdendo in malo modo, tanto per far capire il livello di gioco. Poi sicuramente, il periodo che ricordo con maggiore affetto è quello della stagione con la maglia della Scavolini Pesaro nel 2004-05. Ė stata una stagione molto intensa in una città che vive di basket.
Qual è il tuo prossimo obiettivo?
Diventare head coach e vincere un titolo nazionale. Senza dubbio. Ora sto imparando e ho ancora molta strada da fare, ma spero che presto tu mi richiamerai per fare un’altra intervista e io sarò a capo di una squadra che avrà vinto il titolo!