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St. John’s, giovane e sempre più forte

Autore: Manuel Follis
Data: 7 Dic, 2017

“Ti spiace se mangio mentre parliamo?”. La chiacchierata con Luca Virgilio inizia così, in maniera del tutto informale. L’assistant of head coach della St. John’s University mi raggiunge nel Taffner, la palestra doppia dove si allenano i Johnnies (nessuno li chiama Red Storm) che è anche il luogo dove giocatori e staff incontrano parenti e amici dopo le partite. Finalmente sorride. Durante la gara contro Sacred Heart era concentratissimo, pieno di fogli con statistiche avanzate. Si siede e iniziamo.

È andata bene no? Sorride di nuovo “Beh dovevamo vincere di 30 e abbiamo vinto di 40. È andata come doveva andare”. In realtà il punteggio finale potrebbe ingannare: a fine primo tempo St. John’s era in vantaggio solo di 2 punti, grazie alla pioggia di triple messe a segno dai Pioneers (7/11) e a qualche errore di troppo della squadra di casa. “Ma sì, sapevamo che non potevano andare avanti con quelle percentuali,”, dice Virgilio. E in effetti quando i tiri di Sacred Heart hanno iniziato a uscire, la squadra allenata da Chris Mullin è riuscita a controllare i rimbalzi e sono arrivati punti facili in contropiede, compresa qualche schiacciata da highlights di Espn.

 

Mentre io e Luca parliamo non riesco a non guardarmi intorno, tutto trasuda storia e blasone. La Lou Carnesecca Arena (in onore di un coach che ha fatto la storia dell’università) è situata nel cuore del Queens, e il viaggio per arrivarci dura quasi un’ora da Manhattan con il bus MQ5. D’altronde se il quartiere del Queens fosse una città autonoma, sarebbe la quarta più grande degli Usa e quindi un po’ di tempo ci vuole, ma questo permette di abituarsi ai cambiamenti. I grattacieli spariscono insieme alle luci dei neon e rimangono case più basse e meno scintillanti, circondate dai colori dell’autunno. Sono anche fortunato, sono giorni che c’è il sole e ci sono 10-12 gradi. “Vai nel Queens?”, mi ha chiesto un tassista il giorno prima della gara, “allora scoprirai la vera New York“. Io in realtà, ma non gliel’ho detto, volevo scoprire la St. John’s University.

 

Coach Chris Mullin e Luca Virgilio

 

Capisco che il college ha qualcosa di speciale prima ancora di iniziare il viaggio, appena salito sull’autobus. Perché il mio biglietto non va bene. Ma come? Ho chiesto proprio un ticket valido per i bus. L’autista mezzo ispanico è un po’ spazientito. “Sì ma per questo va bene su quelli cittadini, la MQ5 va fuori”. E dove lo compro quello giusto? Mi squadra. È evidente che non sono autoctono e probabilmente è convinto io abbia sbagliato mezzo. “Ma dove devi andare esattamente?”. Alla St. John’s University. Cambia espressione. “Vai a vedere la partita?”. Mi illumino anche io: esatto! “Vabbe dai sali, devi scendere alla 168esima. Ti avviso io quando ci siamo”. Sorrido, la tempesta rossa funziona.

Quando scendo l’autista mi fa solo un cenno e siccome amo romanzare tutto sono convinto che mi abbia voluto dire “fai il tifo anche per me”, ma è probabile che fosse più un “ringrazia che ti è andata bene”. Per me resta un tifoso complice e intanto inizio a guardarmi intorno. Manca ancora un’ora all’incontro ma ci sono già persone che stanno andando all’arena. Una coppia divide un cartone pieno di ciambelle prese da Dunkin’ Donuts. I miei preferiti sono una coppia di anziani, avranno almeno 70 anni. Uno porta un cappello con la sigla del college e cammina con fatica, lentamente. L’altro lo aiuta e vedo che sotto la giacca indossa una maglietta rossa. Stiamo tutti entrando nella pancia di Carnesecca.

(Lou Carnesecca ha allenato dal 1965 al 1970 e ancora, dopo una parentesi con i pro, dal 1973 al 1992)

Pochi giorni fa sono stato a vedere i Knicks. Di fianco a me avevo due portoghesi. Sopra due polacchi. I quattro davanti a me di Miami. Qui nell’arena della St. John’s University sono tutti del posto. E si conoscono. Come una grande famiglia. Ehi guarda chi c’è, dov’eri finita? Come stanno Sue e i bambini? Ehi John, questo è mio figlio, vuole fare il quarterback devi vedere come lancia. E via di pacche sulle spalle, strette di mano e niente birre o cibo. Nessuno mangia, al massimo popcorn, perché ci sono i Johnnies da tifare. Devo sembrare un po’  come una ballerina col tutù in mezzo alla linea difensiva dei Dallas Cowboys. Ma sono seduto dietro la panchina di St John’s, quindi anche se non sanno chi sono, sanno che sono “amico”. Pacche sulle spalle no, ma sorrisi sì. Ah, davanti a me c’è il vecchietto traballante col cappellino. A ogni canestro festeggerà, col pugno alzato cantando a ritmo “Let’s-go-John-nies”. Mitico.

Sì perché in effetti ci sarebbe anche una partita da commentare. È che il college basketball, anche solo per il contorno, è troppo divertente. “Ma certo”, sorride ancora Virgilio, “vedere giocare questi ragazzi è il massimo, ci credono, questi pur di vincere si ammazzano”. A pensarci New York offrirebbe ben due squadre di Nba da seguire: Knicks e Nets. “No vabbè, io la regular season praticamente manco la guardo”, spiega Virgilio mentre addenta un altro pezzo della sua piadina arrotolata. “Mica giocano a basket, fanno finta”.

A proposito di “fare finta” cerco di capire quanto è grave l’infortunio di Marcus Lovett, il secondo violino della squadra insieme a Shamorie Ponds. “Ha avuto un risentimento muscolare. Oggi non serviva e l’abbiamo tenuto a riposo precauzionalmente. Adesso faremo nuovi test e poi vedremo cosa fare. Ma potrebbe avere qualche minuto già contro Grand Canyon“. La partita è martedì, non ci si ferma mai. Stanco? “Per forza. Andiamo a mille. Vanno tutti a mille, non puoi fermarti un secondo. Se no mica mi mangiavo sto rotolo al volo. È che domani alle 7 abbiamo l’aereo per l’Arizona. Atterriamo e alle 11 abbiamo già allenamento”. St John’s poi vincerà di 8 punti, ma ancora senza Lovett.

 

Mentre parliamo due ragazzi di colore stanno facendo una gara di tiro nell’altro canestro. Gli “sdeng” si sprecano. Devono essere amici di qualcuno, siamo a livello “campetto” nel mix tra voglia di tirare e percentuali dell’orrore. Intanto i giocatori della squadra fanno capolino uno a uno. Il primo è Justin Cole, un walk on, che indossa ancora i pantaloncini ed esce con la sottomaglia bianca. Una tipica mamma di colore gli corre incontro. Si abbracciano, lei gli fa festa. Staranno accanto a noi a parlare tutto il tempo. Quando me ne andrò il terzetto formato da giocatore-mamma-zia sarà ancora lì ai tavoli a chiacchierare.

C’è poco da fare. Resto ipnotizzato da questo clima che “solo al college”. Justin Simon arriva e lo aspetta la ragazza. Lei ci tiene un casino. Se lo spupazza manco fosse un peluche e poi chiede alle amiche, la sua crew personale, di farle le foto con il suo boyfriend. È evidente che in pochi secondi finiranno su Instagram e Snapchat. Qualche metro più in là invece c’è Brian Trimble, il freshman un po’ “ciccio” che ha la faccia da bambino.

Basta distrazioni. Si è giocata una partita e ci sarebbe una stagione in corso. Ecco, come è iniziata la stagione? Luca non esita: “Alla grande”. Il feeling è buono? “Molto”. Cos’è cambiato rispetto allo scorso anno? Sorride. “Beh la cosa più importante: abbiamo giocatori più forti”. Il riferimento è a Marvin Clark e a Simon. Il primo, transfer da Michigan State, in effetti fa impressione per il fisico e per i muscoli. “È un giocatore di football”, lo inquadra Virgilio riassumendo in una sola parola quel mix di stazza ed esplosività. “E in più è uno che ha esperienza, che ha giocato a livelli alti, che ha partecipato a una Final Four”. È Clark, mi spiega Virgilio, il leader della squadra. Quando parla lo ascoltano e c’è anche feeling con le due “star” a roster, ovvero Ponds e Lovett.

Amar Alibegovic in primo piano e sulla destra Luca Virgilio

 

Il record di St. John’s è 7-1, però non hanno incontrato tutte squadre imbattibili, anzi. Per questo mi interessa capire la sconfitta con Missouri. “Beh è abbastanza facile, nel finale loro hanno fatto sempre canestro, hanno messo 8 triple di fila, quando capita una cosa così è praticamente impossibile vincere”. Loro-hanno-segnato-e-noi-no. Non è troppo facile riassumere la gara così? “Ovvio non è solo quello, ma alla fine in campo vanno i giocatori. Le mie sensazioni per la stagione sono positive perché abbiamo giocatori forti, peraltro giovani. Un allenatore può inventarsi qualsiasi cosa, ma alla fine se hai giocatori forti è tutto più semplice”, chiosa Virgilio. Simon in questo potrebbe essere fondamentale, corre bene il campo, tira poco da 3 ma bene (5/6) è atletico. “È stato un innesto importante”.

Parlando di giocatori ci sono ovviamente anche Lovett e Ponds. Quest’ultimo è considerato quello più da Nba, ma ha iniziato la stagione così così. “Non gli stanno entrando i tiri, è al 21% da 3 e segna comunque 20 punti a partita”, commenta Virgilio, “t’immagini cosa succede appena inizia a metterla anche da fuori?”. Tutto sta ovviamente nel far entrare quei tiri. “Prima o poi inizieranno a entrare e noi siamo con lui in questo. Qui a St. John’s si incoraggiano sempre i tiratori. Se hai spazio e sei libero devi tirare”. Di Ponds e Lovett si parla anche in ottica Nba e c’è chi scommette che in primavera testeranno le acque del draft. “Se restano l’anno prossimo avremo una signora squadra”, commenta Virgilio.

Intanto quest’anno c’è la Big East, con Villanova che doveva avere un anno di transizione mentre sembra la solita macchina schiacciasassi. “Villanova è effettivamente una spanna sopra”, ammette Luca, “mentre le altre sono un po’ sotto”. Creighton però pochi giorni fa si è presa una ripassata da Gonzaga. “Vabbè ma nessuno vince a Gonzaga, per questo è raro che le squadre ci vogliano giocare. Però Creighton è sempre forte, e il loro attacco è sempre temibile”. E per la stagione chi vedi favorita? “Le solite, Michigan State, Duke. Contro i Blue Devils dovremo anche giocarci, la partita è il 3 febbraio. Sarà dura, ma anche un’occasione per molti giocatori per mettersi in mostra”. A volte le carriere svoltano così. Se Ponds dovesse vincere il duello personale con un prospetto come Trevon Duval, le sue quotazioni Nba salirebbero più di quanto accadrebbe in molte draft combine.

 

È tempo di andare. Ci salutiamo e Luca sale le scale che lo portano negli uffici al piano di sopra, mentre nella sala pesi alcuni addetti preparano le valigie con l’attrezzatura per l’imminente trasferta. Tariq Owens, il lungo tra i migliori stoppatori della Ncaa, è sulla porta in fondo, in tuta, col cappuccio alzato a coprirsi la testa. Quando siamo arrivati c’era una luce autunnale piena di sfumature, mentre adesso fuori è tutto buio. C’è la calma della periferia americana. Calma apparente, visto che da lì a poche ore, proprio nel Queens (che però, come detto, è un po’ come dire “proprio a Houston”), un uomo dopo un litigio in un bar lancerà la sua auto contro un gruppo di sei persone, uccidendone una. Cose normali nelle grandi città.

Mentre rientro a Manhattan da lontano vedo le luci della city. Pian piano tornano a farsi più intense. Non so bene che giro facciamo, ma mi ritrovo davanti al Madison Square Garden, che però ospita l’hockey. Questa sera non hanno giocato i Knicks ma i Brooklyn Nets al Barclays Center, perdendo 114 a 102 in casa contro gli Atlanta Hawks. Una partita Nba come tante. Una partita senz’anima. Io invece ho scelto il vecchietto che urla dietro la panchina e dei giovani che giocano coi sogni nelle scarpe. Let’s-go-John-nies.

 

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