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Stefano Faloppa e l’America a tutti i livelli

Stefano-Faloppa-New-Haven
Autore: Paolo Mutarelli
Data: 14 Ott, 2025

Il percorso in America non è sempre lineare. C’è chi arriva presto negli anni dell’High School, chi passa prima da una mid major per poi salire in conference più importanti e chi come Stefano Faloppa ha giocato praticamente a tutti i livelli: dagli anni del liceo in East Coast al Junior College, è arrivato finalmente in Division I dopo un passaggio nel transfer portal. Il senior italiano è arrivato giovanissimo dall’altra parte dell’oceano e sta per iniziare quella che sarà la sua ultima stagione negli Stati Uniti. L’abbiamo sentito per farci raccontare questa lunga esperienza, dal Friuli a Roma fino all’arrivo sulla East Coast passando per il Tennessee.

Sei partito presto da casa, hai quasi passato più tempo in America che in Italia. Ma prima di parlare dei tuoi anni in High School, qual è stata la scintilla con il basket e com’è andato il tuo percorso in Italia?

La mia passione per il basket è nata grazie alla mia famiglia. Fin da piccolo seguivo mio fratello, che disputava i campionati giovanili d’eccellenza, partecipando a diverse finali nazionali e ricevendo anche alcune convocazioni in Nazionale. I miei genitori mi portavano con loro a vederlo giocare in giro per l’Italia, e da lì è scattata la scintilla. Anche mio zio, Egidio Delle Vedove, ha avuto una lunga carriera da professionista tra gli anni ’80 e ’90, militando tra Serie A e B e vincendo uno scudetto con il Banco di Roma nella stagione ’82/’83. Insomma, il basket è sempre stato lo sport di famiglia. Ho iniziato a giocare a minibasket con il Balosesto, per poi proseguire con il Nuovo Basket 2000 Pordenone e successivamente con la 3S Basket Cordenons. In terza media è arrivata la chiamata della Stella Azzurra Roma, un’opportunità che non potevo lasciarmi sfuggire. Ho trascorso lì tre anni indimenticabili, fondamentali sia dal punto di vista umano che tecnico, coronati da uno scudetto Under 15, un bronzo Under 16 e un argento Under 18.

Hai praticamente provato il basket americano a qualsiasi livello. Raccontaci com’è nata l’idea di andare a fare l’High School?

Il mondo del basket americano mi ha sempre affascinato, fin da quando ero bambino. Ricordo che alle elementari guardavo le partite NBA su Sportitalia e collezionavo riviste di Slam. Durante gli anni trascorsi alla Stella Azzurra, ho avuto compagni che frequentavano scuole americane e mi hanno fatto conoscere più da vicino il sistema cestistico statunitense, che mi ha subito incuriosito e appassionato ancora di più. Nel mio ultimo anno da Under 18 alla Stella Azzurra, un agente specializzato nell’inviare ragazzi negli Stati Uniti mi ha proposto di far circolare il mio nome e i miei video tra vari allenatori di high school sulla East Coast. Ovviamente ho accettato subito perché era una sogno che si stava realizzando.

Dopo il tuo diploma, sono passati tre anni prima di approdare in Division I: un anno di post grad e poi due anni a Monroe in JuCo. É stata una deviazione oppure era un percorso previsto?

È stata sicuramente una deviazione rispetto al percorso che avevo immaginato. Onestamente, mi aspettavo di approdare subito in Division I appena terminata la high school. Ma l’arrivo del Covid ha stravolto completamente il college basketball. A meno che non fossi un recruit a 4 o 5 stelle, trovare un posto in una squadra di Division I era praticamente impossibile. Successivamente ho frequentato la Spire Academy, ma purtroppo è stata un’esperienza negativa, che ha finito per complicare ulteriormente il mio percorso. Per fortuna, però, è arrivata l’offerta da parte del Monroe College, che mi ha permesso di rimettermi in carreggiata.

Stefano Faloppa

Qualche minuto lo scorso anno contro la Tennessee che ha chiuso la sua avventura alle Elite Eight

Raccontaci il mondo degli Junior College. In America spesso se ne parla come una sorta di clinica riabilitativa per talenti disperati, mentre in realtà si tratta giusto di scuole più economiche rispetto a quelle dell’Ncaa: che ambiente hai trovato?

Per quanto il Juco possa sembrare un ambiente duro e “grezzo”, sono stati sinceramente i due anni più divertenti della mia esperienza americana. È un contesto particolare: sia nel mio anno da freshman che in quello da sophomore, facevo parte di una squadra molto forte, con 8 o 9 giocatori di Division I. La differenza principale rispetto alla Ncaa sta nel livello generale della competizione e nelle strutture: le scuole Juco sono più piccole, meno lussuose e con risorse decisamente inferiori. Tuttavia, può essere un percorso davvero utile, soprattutto se sei nei primi 30-40 juco della nazione. Nel mio anno da freshman eravamo classificati tra le prime 5 squadre del Paese, mentre nel secondo anno siamo comunque rimasti stabilmente tra le top 20-25. A livello tecnico è stata un’esperienza importantissima: ho giocato minuti di qualità e con grande responsabilità, cosa che raramente accade ai freshman in Ncaa.

L’Ncaa è cambiata tanto negli ultimi anni, soprattutto a livello economico. Vivendolo da dentro si percepiva quello che stava per accadere?

Negli ultimi 4-5 anni, l’Ncaa è cambiata completamente, e purtroppo io ne ho subito le conseguenze. Oggi, per la maggior parte delle conference, la Division I somiglia sempre più a un campionato professionistico: i giocatori vengono pagati e grazie al transfer portal possono cambiare squadra ogni stagione, alla ricerca di nuove opportunità e stipendi più alti.

Arriviamo al recruit di due anni fa: quali squadre ti hanno contattato e perchè UT Martin?

Il processo di recruiting a Monroe è stato particolare. Dopo il mio anno da freshman, avevo ricevuto offerte da Albany e New Hampshire, ma decisi di tornare a Monroe con la speranza di attirare proposte più interessanti. Purtroppo quelle offerte non arrivarono mai. Al termine del mio secondo anno, le uniche vere opportunità concrete erano St. Peter’s e UT Martin. Alla fine, ho scelto di firmare con UT Martin, convinto dal sistema di gioco del nuovo allenatore, coach Shulman, che proponeva un’impostazione più europea.

Cosa non è andato in questa stagione? Tanti minuti all’inizio, perchè poi lo spazio si è sempre più ristretto? 

Avevo iniziato la stagione molto bene, con minuti importanti e un buon impatto. Però, a metà anno ho attraversato un periodo difficile, con un paio di partite sotto tono, e da lì in poi il mio minutaggio è stato ridotto quasi del tutto. Purtroppo, non c’era un grande feeling umano con il capo allenatore, e questo ha influito negativamente sulla mia situazione. Nel frattempo, l’altra ala con cui dividevo i minuti stava giocando molto bene, e di fatto non ho mai più avuto la possibilità di riconquistare il mio spazio nelle rotazioni.

Arriviamo al trasferimento che ti ha portato da UT Martin a New Haven: i racconti che abbiamo sentito finora sono stati di telefonate continue e giornate convulse. Come è stata la tua esperienza?

Il periodo del transfer portal è stato stressante. Le scuole ti contattano a qualsiasi ora, per giorni interi, e poi all’improvviso spariscono. A volte arrivano offerte con soldi garantiti, che però si volatilizzano nel giro di poco. Alla fine, le università con cui sono rimasto in contatto sono state New Haven, North Dakota State, Central Arkansas, Binghamton, Central Connecticut e New Hampshire. Ho scelto New Haven perché conoscevo già l’allenatore. Veniva spesso a vedere gli allenamenti quando ero a Monroe e mi aveva fatto una buona impressione fin da subito, sia come tecnico che come persona. Il fatto che mi seguisse da due anni era un bel segno. Mi ha offerto minuti e responsabilità importanti, ma soprattutto l’intenzione di valorizzare al meglio le mie doti tecniche. In più, speravo di tornare sulla East Coast, che ormai considero una seconda casa.

Che ambizioni hai per questo ultimo anno, sia a livello personale che a livello di squadra?

Da questa stagione mi aspetto davvero molto. Essendo probabilmente l’ultimo anno della mia esperienza americana, voglio dare tutto quello che ho ed essere uno dei migliori giocatori della NEC. Purtroppo, dopo sette anni lontano dall’Italia, ho la sensazione che nell’ambiente cestistico italiano molti si siano quasi dimenticati di me. Per questo motivo, spero che questa stagione possa rappresentare una vera occasione per mettermi in mostra, far emergere tutte le mie qualità e dimostrare il mio valore.

Parliamo del NIL, che è la possibilità per voi giocatori di guadagnare soldi che ovviamente in Italia non si vedono. Quale ruolo pensi che avrà nel processo di recruiting? 

Sicuramente questi sono gli anni d’oro per venire a giocare in America, ma credo che prima o poi verranno introdotte regole e contratti per regolare meglio il NIL. A parte questo, l’Ncaa rimane, a mio avviso, la migliore opportunità per i giovani europei una volta conclusi i campionati giovanili.

Stefano Faloppa

Che giocatori eri quando sei arrivato e come pensi che l’America ti abbia migliorato.

Sono arrivato come un “bambinone” di 17 anni e me ne andrò da uomo adulto. Soprattutto dal punto di vista atletico e fisico, sono un giocatore completamente diverso grazie alle sessioni di pesi e al fatto di confrontarmi quotidianamente con atleti americani, sono diventato naturalmente più atletico e forte. Dal punto di vista tecnico, invece, ho continuato a sviluppare il mio repertorio offensivo grazie alle centinaia di allenamenti individuali, che in America amano fare.

Facciamo che ottobre 2026, tra un anno esatto, ci risentiamo sempre per un’intervista. Saresti contento se fosse successo cosa?

Sarei felice se riuscissi a vincere il titolo della NEC, ottenere qualche premio individuale e trovare un contratto da professionista.

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