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Vercellino, la mia vita in un altro mondo

Autore: Isabella Agostinelli
Data: 5 Gen, 2018

Roberto Vercellino è al secondo anno a Northern Colorado, squadra della Big Sky che in questa stagione ha grandi ambizioni e che si sta confermando come una delle favorite nella conference. Tra risate e qualche dubbio linguistico, ecco cosa ci ha raccontato l’ala torinese di 2.01 metri, classe ’97, in un’intervista piena di spunti che ci fa conoscere la vita di uno studente/atleta negli States, con un messaggio a tutti i giovani che sognano un futuro in Ncaa.

Dopo un anno negli Usa, possiamo fare un bilancio di questa avventura oltreoceano: cosa ti ha insegnato il tuo anno da freshman? Quali sono stati gli aspetti positivi e quali invece quelli negativi?
Parliamo di basket vero? [ride] Mi ha insegnato un nuovo livello di lavoro, non tanto in termini di disciplina, ma soprattutto per quanto riguarda l’organizzazione del tempo tra palestra, partite e allenamenti. Inoltre mi ha dato più consapevolezza del mio corpo e di come curarlo in modo da essere pronto non solo per le partite, ma anche e soprattutto per gli allenamenti: quando ci si allena, qui ci si allena sul serio e non ci sono giorni in cui…come si dice in italiano?…non me lo ricordo più! [ride cercando la parola giusta] In ogni modo, qui non si va “leggeri” e quindi bisogna essere pronti e lavorare sodo sia fisicamente che mentalmente. Che dire poi a livello di basket? Io sono sempre stato abituato a giocare da esterno e sono arrivato come 4 ma, visto che al mio allenatore piace giocare con quattro guardie e un lungo leggero, mi sono dovuto abituare a giocare da 5, ed è stata davvero una bella sfida soprattutto a livello fisico.

E lasciando da parte il basket invece?
Gli Stati Uniti sono un ambiente completamente diverso rispetto all’Italia e all’Europa: è semplicemente un altro mondo. Già il fatto dell’università: il saper coniugare bene lo studio e il gioco è una grande sfida, ma è un’esperienza che ti permette di maturare.

Il campus di Northern Colorado a Greeley, a un’ora da Denver

Un’esperienza che consiglieresti anche a tutti i giovani che in questo momento stanno pensando di compiere il tuo stesso passo?
Dico solo di pensarci bene. Sono almeno quattro anni di basket ad alto livello in cui la richiesta da parte degli allenatori è molto alta. È vero, negli States si è studenti e atleti, ma alla fine dei conti quello che viene richiesto è saper gestire al meglio il proprio tempo come se si trattasse di veri professionisti. È come se fosse un vero e proprio lavoro per pagarsi gli studi.

Dopo un anno, “il sogno americano” si è un po’ ridimensionato o è ancora più forte?
Non l’ho mai nascosto, sono un tipo molto nostalgico: a casa stavo bene e quindi la nostalgia l’ho sempre avuta sin dal primo anno, anche se qui mi trovo benissimo.

Gita in barca per tutta UNC

Come ti ha aiutato nel salto verso la Ncaa l’aver giocato in una squadra come la Virtus e in nazionale? Cosa invece hai trovato davvero di diverso con l’Italia in particolare e con il basket europeo?
Come sicuramente ti avranno detto anche gli altri, il gioco è molto più fisico e veloce negli States. Ma non lo è solo al college. Qui il lavoro sul proprio fisico e sulla propria tecnica inizia già dalle scuole superiori e quindi, quando arrivano al college, sono già formati e con un livello di atletismo molto più alto rispetto all’Italia e all’Europa. Inoltre, in Division I o Division II arrivano solo gli atleti migliori e quindi il livello di gioco e la fisicità dei giocatori naturalmente si alzano. E di nuovo, la maggior differenza con l’Italia l’ho trovata nella gestione del tempo: durante le pause estive, qui si lavora molto a livello individuale, in sala pesi o in palestra concentrandosi sul proprio gioco, dato che durante il campionato di tempo per allenarsi ce n’è poco e in palestra si lavora di più a livello di squadra.

Il 2013 è stato un po’ l’anno della svolta: prima il Jordan Brand Classic di Barcellona e poi la chiamata dalla Virtus Bologna. Qualche aneddoto legato al torneo di Barcellona con i migliori prospetti europei?
È stata una bellissima esperienza anche perché è stata la mia prima internazionale: mi trovavo ancora a Torino e sono un po’ caduto dalle nuvole perché sinceramente il Jordan Brand Classic non sapevo neppure cosa fosse prima di arrivarci [ride divertito]. Poi lì ho avuto modo di misurarmi con atleti del calibro di Dragan Bender [quarta scelta assoluta nel Draft NBA del 2016 ancora oggi nei Phoenix Suns ndr]. L’unico problema è che il mio inglese non era molto sviluppato all’epoca [ride] e facevo un po’ fatica…quindi ricordo che io e Andrea La Torre [nella lista tra gli MVP di quella edizione poi volato a Brooklyn per le finali del torneo] abbiamo passato molto tempo insieme perché non sapevamo come parlare agli altri.

Vercellino in maglia Virtus

Come hai reagito invece alla convocazione da parte di Bologna?
Sapevo che quell’anno avrei dovuto prendere una decisione rispetto a dove andare, nel senso che mi sentivo pronto per fare un’esperienza fuori da casa, un’esperienza nella quale la pallacanestro sarebbe stata il mio primo obiettivo. Tra le varie opzioni che mi sono arrivate ho scelto la Virtus soprattutto conoscendo Giordano Consolini [all’epoca responsabile del settore giovanile bianconero] . Già lo conoscevo ai tempi della nazionale, così quando è venuto a Torino per parlare con me, con i miei genitori e con i miei allenatori, prendere una decisione non è stato così difficile. Senza contare il fatto che la Virtus è una società che punta molto sul settore giovanile e quindi sapevo che sarebbe stata una buona esperienza anche per crescere. E ancora oggi sono contentissimo della mia decisione.

U17, Mondiali di Dubai: ci puoi raccontare quell’esperienza? La partita e la vittoria più belle? La sconfitta più bruciante?
Eravamo nel girone della Spagna, tra le favorite, e ci abbiamo pure vinto [64-50 con 6 punti di Roberto] senza dubbio è stata la vittoria più bella. Però nella partita successiva ci siamo fatti sorprendere dalla Cina…e senza dubbio è stata la sconfitta più brutta anche perché abbiamo perso in maniera molto ingenua. Eravamo un gruppo unito che ha saputo fare bene in quell’occasione. E se gli Stati Uniti sono un mondo differente…dovete vedere Dubai!

Con la maglia della nazionale

E poi nel 2016 il tuo arrivo a Northern Colorado. Hai già spiegato che è legato soprattutto alla possibilità di giocare e studiare che in Italia non è data agli studenti/atleti. Quindi ti chiedo cosa si potrebbe cambiare per permettere di coniugare questi due aspetti ed evitare questa “fuga di talenti”?
Qui in USA è un sistema completamente differente che sarebbe difficile – se non impossibile – replicare in Italia: l’università è concepita come luogo di studio, ma anche come luogo per poter praticare sport in una forma quasi professionistica. Ma se non si può cambiare tutto il sistema, si potrebbe almeno trovare un compromesso tra le due parti, tra le società e le università. In Italia, se un giovane inizia l’università sa che gli studi occuperanno il 100% del suo tempo [in particolar modo per la facoltà come ingegneria come nel caso di Roberto]. Quindi le istituzioni dovrebbero capire le necessità di noi giocatori e regolamentare la situazione; dall’altro lato, anche le società dovrebbero venire incontro e assecondare le necessità di quei giocatori che desiderano anche studiare. Per esempio, la Lega potrebbe regolamentare gli impegni sportivi con quelli universitari.

Ci sono infatti molti italiani al momento negli USA sparsi tra i vari college…. siete in contatto tra di voi?
Il tempo è poco e siamo tutti un po’ sparsi. Ma fa piacere incontrare sui campi ragazzi che condividono il tuo stesso percorso e le tue ambizioni.

Il gioco Ncaa sappiamo essere più fisico e più veloce. Tu su cosa stai lavorando maggiormente?
Al momento di lavoro individuale se ne parla poco, soprattutto adesso che abbiamo iniziato le partite di conference. Comunque, io personalmente sto lavorando sul mio fisico e sul mio tiro, due “tegole” che mi porto sempre dietro. Quando inizia il campionato tutta l’attenzione e il lavoro si sposta sulla squadra. Dato che il nostro attacco va bene, in allenamento lavoriamo più sulla difesa anche perché le nostre guardie spesso si concentrano di più sulla fase offensiva ed è quindi indispensabile allenare anche la loro fase difensiva. Il nostro sistema difensivo infatti funziona solo quando tutti i cinque giocatori sono sulla stessa pagina. Ma c’è un aspetto del gioco in cui noi europei abbiamo una marcia in più rispetto agli americani: come dice il mio coach, siamo più abituati a leggere le situazioni più che ad eseguire schemi; ed è proprio questo che l’allenatore apprezza di me e che mi ha chiesto di fare sfruttando al massimo questa mia abilità.

Roberto Vercellino (UNC)

Per il momento coach Jeff Linder ha giocato molto con gli esterni che hanno fatto il bello e il cattivo tempo in questo inizio stagione. Anche se qualcosa è cambiato nelle ultime due partite. Ci sono dei cambiamenti nel vostro gioco? Avrai più spazio?
Abbiamo delle guardie di altissimo livello [Andre Spight, Jordan Davis, Anthony Johnson e Jalen Sanders] e quindi è normale, e doveroso, che il gioco si sviluppi intorno a loro, anche perché fanno molti punti [Spight ha una media di 18.8 punti a partita e Davis di 17.1]. Ma proprio perché sono forti attirano spesso su di loro la difesa avversaria e quindi è facile ricevere degli scarichi e giocare in post basso. Tuttavia, ogni partita è una storia a sé: ci sono partite in cui gli accoppiamenti agevolano il lavoro di noi lunghi, altre in cui le guardie invece hanno maggiori spazi.

Qual è la partita più attesa, sia di conference che in generale, e perché?
Ogni partita ha il suo valore soprattutto quelle di conference. Quelle che sicuramente hanno però un peso più importante sono quelle quattro partite  [del torneo della Big Sky] che decreteranno poi l’ingresso al torneo NCAA. È a quelle che puntiamo e che non vediamo l’ora di giocare.

Eravate tra i favoriti della conference alla vigilia e, nonostante l’ultima sconfitta contro Montana State, lo siete ancora. Quali sono i punti di forza di questa squadra? Dove può arrivare? C’è un giocatore in particolar da tenere d’occhio?
In realtà non penso fossimo i favoriti, e i pronostici lasciano il tempo che trovano: gli scout che li fanno non hanno tutti i dati in mano, non sono negli spogliatoi con noi e non hanno accesso a tutte le dinamiche che esistono nelle squadre. Quindi, non ci faccio troppo affidamento. Quello che so invece è che abbiamo un grandissimo potenziale che deriva dalla compattezza della difesa sui, cui come ho detto, insistiamo molto in allenamento. Ed è per questo che direi che è tutta la squadra da tenere d’occhio: siamo in forma, ci sentiamo bene e non vediamo l’ora che arrivi febbraio per strappare un biglietto per il torneo NCAA.

Normalmente concludo l’intervista con “c’è qualcosa che vorresti aggiungere?” e di solito i giocatori ringraziano e rispondono di no, ma Roberto mi coglie di sorpresa e dice:
“Sì, sì…se è possibile vorrei aggiungere un saluto. Dice che quando mi intervistano, anche se non accade molto spesso [sorride], non la saluto mai…..quindi, visto che me lo chiedi, vorrei salutare davvero la mia prima allenatrice, Valentina Tomaselli [attualmente nello staff della Pallacanestro Don Bosco Livorno] che mi ha allenato quando ho mosso davvero i primi passi nella pallacanestro.

In fondo, è anche grazie a lei che oggi Roberto può vivere il suo sogno a stelle e strisce.

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