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Winning in Paradise, la storia incredibile di Florida Atlantic

Autore: Riccardo De Angelis
Data: 30 Mar, 2023

Nessuno, a parte i fanatici veri, l’aveva mai sentita nominare. Non ha un prospetto da Draft, una stella che si riempie le tasche coi NIL, un coach famoso o anche soltanto una suora centenaria che ossessiona i media. Nonostante ciò – e in buona parte proprio in ragione di ciò – quella di Florida Atlantic è una delle migliori storie sportive mai offerte da un evento, la March Madness, che di storie non è mai a corto.

FAU è andata lontano in questo Torneo Ncaa e può diventare la prima testa di serie numero 9 a vincere il titolo. Cenerentola? No, non vi azzardate: questa squadra ha giocato da grande per tutto l’anno e meritava un seed migliore. Se parliamo di umili origini, però, effettivamente siamo in pieno territorio fiabesco.

 

Sole, mare e spogliatoi imbarazzanti

Le squadre favorite sono cadute come mosche in questo eccitante, folle Torneo Ncaa 2023, dando così vita a una Final Four senza seed dall’1 al 3. Una composizione opposta a quella di sangue blu vista l’anno scorso, con delle formazioni che mettevano insieme un budget complessivo di 48.7 milioni di dollari per la pallacanestro maschile. Quest’anno? 21.5. E nessuna delle quattro finaliste contribuisce a mantenere basso il totale come Florida Atlantic, coi suoi 2 milioni e spiccioli che, nel 2021, la piazzavano al 180° posto in Division I. Numeri che in genere non aiutano a costruire una squadra vincente.

Quando le reclute vanno a Boca Raton, si può e si deve portarle alla spiaggia – a detta di tutti, paradisiaca – che dista giusto un paio di chilometri dal campus. La carta sole-mare-ma-che-caldo-fa è un bel asso nella manica che lì nel sud della Florida è efficace tutto l’anno, però è anche l’unico che lo staff di FAU può giocarsi per fare bella figura con tal o tale atleta. Quando c’è da fare il giro delle strutture, è meglio accelerare il passo e mostrare il meno possibile. La Baldwin Arena ha un suo piccolo fascino particolare, quello dell’atmosfera intima che può farsi bolgia se riempi tutti i suoi 2900 posti a sedere. Per farlo ovviamente occorre vincere, cosa che da quelle parti non si è fatto mai troppo spesso. Insomma, per cogliere la grazia (in verità, per pochi) di quel campo serve uno sforzo d’immaginazione che l’osservatore medio quasi sicuramente non farà.

Il palazzo di Florida Atlantic si presentava spesso così prima dell’arrivo di Dusty May

Nulla sa di Division I: spalti, tabellone segnapunti, palestra, sala pesi e spogliatoi – soprattutto questi ultimi, a quanto pare talmente angusti e brutti da non essere mostrati affatto durante le visite. “Stiamo ristrutturando”, si diceva alle reclute, riservando loro la sorpresa della scoperta solo dopo essersi iscritti a FAU. Che è un po’ quel che è successo allo stesso coach Dusty May, che nel 2018 fece una mossa degna di Ron Burgundy che si getta nella tana dell’orso. Così eccitato all’idea di diventare capoallenatore per la prima volta in vita sua da accettare la proposta di Florida Atlantic prima di dare un’occhiata in giro: “Le strutture non erano all’altezza. E avevo già accettato l’incarico. […] Non sono uno che piange spesso, ma sono scoppiato in lacrime come un bambino, ha rivelato di recente ricordando il senso di rimorso davanti a quelle facility unito alla vertigine che un passo simile nella propria carriera può generare.

Fast forward a cinque anni dopo, fuori da quel palazzo un po’ così c’è una folla che saluta gli Owls mentre se ne vanno a Houston per delle Final Four conquistate dopo aver battuto squadroni veri – Memphis, Tennessee, Kansas State. Palazzo che per buona parte dell’anno è stato pieno stipato di gente che dal vivo ha visto solo vittorie: 17 fra le mura amiche e 35 in totale fin qui su 38 gare giocate.

 

Roba fuori dal normale, a qualsiasi livello, specialmente nel bel mezzo di una stagione d’oro per la C-USA, mid-major conference mai così competitiva ai propri vertici (North Texas e UAB si giocheranno la finale del NIT e c’è pure Charlotte che si è portata a casa il CBI). Florida Atlantic continua a ballare proprio perché temprata da quelle sfide e perché a prepararla c’è un coach tremendamente capace, nonostante tutto, di reclutare la gente giusta, che è ossessionato dalla voglia di migliorare e che ora raccoglie i frutti di un lavoro iniziato in silenzio parecchio prima di quest’annata.

 

Condividere la torta

Dusty May viene dall’Indiana e quindi il suo idolo di gioventù poteva essere uno e uno solo: Bobby Knight, o come dice May stesso, colui che sta agli Hoosiers come il Papa sta ai cattolici. Dusty, che da ragazzo fu student manager a IU, inevitabilmente finì per interpretare una sua versione tutta urla ed eruzioni vulcaniche quando si trattò di muovere i primissimi passi in panchina. Non roba per lui, così affabile e tranquillo. Col passare degli anni, ha trovato una propria voce sia guardando dentro di sé che all’esterno.

May infatti è uno di quelli che mangia e beve basket alla perenne ricerca non solo di X&O da aggiungere alla lista – e ne cataloga una quantità impressionante – ma anche di una prospettiva diversa sulle cose. È così, come raccontato in dettaglio da CJ Moore per The Athletic, che è arrivato a mettere insieme delle formule efficaci per correggere gli errori senza sbraitare e per inculcare concetti senza abusare delle capacità intellettive dei suoi. Un modo, in definitiva, non per imporre la propria leadership ma più che altro per trasmetterla ai giocatori.

Dusty May e Alijah Martin dopo l’Elite Eight vinta contro Kansas State

Certo, le radici knightiane ci sono e non si rinnegano, quantomeno nello spirito: This is a Coach Knight type of group. We all obviously throw out coaching cliches, but I’ve never been around a group of guys […] that brought it, the amount of energy, intentionality, focus every single workout of every single day. And if one guy wasn’t, then his teammates quickly reeled him in and we didn’t have to. This is a player-led team and these guys have made each other better every single day”.

Ecco, il gruppo. FAU ruota nove giocatori – non pochi per gli standard del college basketball – che stanno in campo fra i 16 e i 26 minuti e in cui soltanto tre viaggiano in doppia cifra realizzativa: Johnell Davis (13.9), Alijah Martin (13.1) e Vladislav Goldin (10.1). Otto diversi leading scorer di giornata nel corso dell’anno e il più frequente, Davis, lo è stato per 11 volte, cioè una ogni tre partite e mezzo. C’è sempre qualcuno pronto ad ergersi protagonista di giornata in base a ciò che la gara detta in quanto ad opportunità. E il resto della squadra è sempre lì pronto a metterlo nella condizione migliore di performare. Prendete Michael Forrest, per esempio: 8.4 punti di media in stagione, completamente a secco nei primi due turni ma poi autore d’una serie di canestri pesanti contro Tennessee e di liberi decisivi nel finale con Kansas State.

 

Forrest, 5th year senior e prodotto locale cresciuto a 20 minuti di macchina da Boca Raton, era stato il primo giocatore reclutato da May. Il primo tassello essenziale per dare un giorno forma completa alla filosofia vincente di Florida Atlantic. “In un’epoca in cui ognuno vuole tutta la torta per sé, questi ragazzi continuano a condividerla ogni singolo giorno”, dice il coach.

Il successo degli Owls viene appunto da lontano perché alle sue fondamenta ci sono l’individuazione e il reclutamento di singoli mentalmente pronti a mettere da parte il proprio ego e tecnicamente capaci di essere una minaccia per gli avversari in una più che discreta varietà di modi. Ogni allenatore che ha incrociato il loro cammino l’ha sperimentato suo malgrado: “Non importa se uno di loro può farne 30. Tutti sanno tirare, palleggiare e passare, il che mette la tua difesa in difficoltà”, ha detto Jerome Tang dopo le Elite Eight.

FAU non è né il tipo di squadra che deve correre ad ogni costo né quello che deve raffreddare i ritmi per imporsi: per loro, una via c’è sempre. L’attacco passa molto da azioni generate con blocchi sulla palla, ma l’identità del ball handler e del bloccante di turno variano. L’aspetto cruciale, inoltre, è che tutti e cinque i giocatori in campo sono in puntuale movimento, coinvolti equamente e quindi pericolosi.

Non c’è un cecchino designato, ma l’importanza del tiro da tre non è sconosciuta: gli Owls sono #35 in D1 per triple prese sul totale dei tentativi dal campo e mettono insieme un buon 37.2% da oltre l’arco con sette dei nove in rotazione tutti capaci di far male dalla distanza. Qualcuno è ok, qualcun altro è buono, anche molto buono, ma nessuno è propriamente d’élite in quel particolare aspetto: messi insieme, però, sono letali.

Devi avere occhi puntati dappertutto, anche perché la loro pazienza ti sfianca: se non viene trovato subito un pertugio adatto per attaccare, lavorano sempre per crearne un altro. Con calma, indipendentemente dall’andamento del match.

Estemporaneità e immaturità sono difficili da estirpare per una squadra di college, ma gli Owls fanno un lavoro incredibile nell’esprimere una pallacanestro degna dei pro. “La comprensione di ciò che fanno in campo è davvero buona ma secondo me sono l’impegno e il livello d’attività che li separano. Perché un sacco di gente è in grado di trovarsi al posto giusto, ma quei tizi fanno la giocata giusta al posto giusto. Sono instancabili in entrambe le metà campo per 40 minuti. È un binomio davvero speciale”, ha detto Grant McCasland di North Texas, universalmente riconosciuto come coach di altissimo livello eppure non capace di sfangarla contro di loro anche solo una volta quest’anno.

Ecco, le due metà campo. Perché se l’attacco di Florida Atlantic (#24 in D1 per Adj. Offense) diverte, c’è anche una difesa #30 della nazione molto bilanciata e che ti fa sudare. Non è la solita retroguardia da mid-major disperata che cerca di sopperire alla mancanza di centimetri e muscoli aggredendo l’avversario al punto di sbilanciarsi. La versatilità degli esterni e la loro capacità di accettare i cambi sistematicamente sono capitali, sì, ma tanto quanto il coordinamento col lungo Goldin (non uno da mid e infatti si è rivelato una steal silenziosa per FAU) che raramente lascia il fianco scoperto in area. È così che la squadra riesce ad essere #15 in D1 per eFG% concesso e addirittura #2 nel rapporto assist-canestri dal campo avversario, oltretutto senza subire a rimbalzo nonostante una notevole assenza di centimetri al di fuori del russo.

Florida Atlantic, in definitiva, è a tutti gli effetti al di là dell’etichetta di Cenerentola. Non è arrivata qui con colpi di fortuna esagerati, ma imponendo la propria logica in un mondo, quello delle grandi del basket Ncaa, che spesso ne segue una diversa, perfino opposta, ma non necessariamente vincente. Nessuna primadonna, nessun individualismo: solo un’incredibile fame di vittorie e concentrazione massima nel cercare il modo migliore di portare a casa la torta.

Quattro fette già mangiate, gustate e digerite. Altre due per fare la scorpacciata definitiva.

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