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Francesco Badocchi, il pogo stick di Virginia

Autore: Isabella Agostinelli
Data: 22 Dic, 2017

Ha lasciato l’Italia perché nel nostro Paese non riusciva a coniugare basket e studio come avrebbe voluto. Nonostante un grave infortunio, ha trovato spazio in un college prestigioso come Virginia e giocherà nella conference più forte di tutte, l’ACC. Lo chiamano “human pogo stick” perché salta tantissimo e sa usare le sue doti atletiche sia in attacco che in difesa. Preferisce farsi chiamare Frankie, ma Francesco Badocchi, ala mancina di 2 metri, classe ’98 da Milano, ha ancora l’Italia nel cuore e non vede l’ora di indossare la maglia della nazionale. Conosciamo meglio la giovane promessa italiana in questa intervista in cui ci racconta la sua vita in una delle università più antiche e prestigiose d’America.

Tuo padre è italiano e tua madre americana, così sin da piccolo ti sei diviso tra USA e Italia. A 15 anni hai poi deciso di trovare la tua strada negli States. Spiegaci come sei arrivato a questa decisione e se i tuoi ti hanno spronato o hanno cercato un po’ di trattenerti.

In realtà, i miei mi hanno appoggiato sin dall’inizio. Forse mia madre voleva che aspettassi un altro anno – all’epoca facevo la terza superiore -, ma anche lei era d’accordo con me. Anche perché le mie due sorelle maggiori, Camilla e Arianna, avevano fatto lo stesso all’ultimo anno di superiori e quindi mancavo solo io a compiere questo passo. E poi era una cosa che volevo e dovevo fare: sfortunatamente, in Italia non è facile poter coniugare basket e scuola e la situazione che vivevo non mi accontentava. E così eventualmente (l’influenza inglese si fa sentire) sono arrivato in Kansas con l’obiettivo di poter vivere al meglio la mia vita come studente e come giocatore.

Quali sono state le difficoltà maggiori per un ragazzo così giovane nell’ambientarsi in un nuovo paese?

Tutti gli anni andavo a trovare i miei parenti a Mission, in Kansas e passavo con loro l’estate. I due anni di scuola superiore a Bishop Miege li ho fatti con mio cugino, e questo mi ha aiutato anche perché mi sono ritrovato in un paese nuovo e senza amici. All’inizio non è stato facile, non tanto per la lingua – che parlavo già bene – ma per il sistema diverso, sia nella pallacanestro che nello studio. Il basket negli USA, anche nella high school, è un’altra cosa rispetto all’Italia: più rapido, più fisico….ho dovuto rivedere tutto il mio gioco. Poi anche a scuola dovevo fare tutte le materie in inglese e non ero abituato. Quando ho preso il ritmo però, anche in campo, tutto è andato per il verso giusto.

So che i tuoi zii ti hanno aiutato in questo passaggio. 

All’inizio naturalmente la presenza dei miei parenti è stata fondamentale, in quanto mi portavano loro ai vari allenamenti e a vedere le scuole. Quando ero più piccolo, poi, ero seguito da un allenatore privato che mi ha aiutato a cambiare la mia impostazione e a renderla più vicina al gioco americano.

Il primo anno a Bishop Miege, nel 2015-16, hai dovuto saltare la finale per un infortunio: come hai vissuto quei momenti?

Già, gli infortuni non mi hanno aiutato molto. Quest’anno, mi sono dovuto rioperare al ginocchio destro perché sfortunatamente i dottori non avevano fatto un buon lavoro inizialmente. È stata una difficoltà maggiore che si è aggiunta al passaggio dall’high school al college, passaggio che non è assolutamente facile in particolar modo quando di mezzo c’è un programma ambizioso come quello di Virginia University. I dottori mi hanno assicurato che adesso dovrebbe essere davvero a posto. Parlando di quella prima finale, saltarla è stato davvero un duro colpo, perché avevo giocato bene tutto l’anno e ci tenevo a giocare quella partita. Vederla da spettatore è stato sicuramente difficile. Fortunatamente l’anno dopo ho avuto modo di rigiocarla (sempre contro McPherson) e di vincerla (per 67-53).

 

Che paure avevi? Temevi di rimanere fuori dal giro dei grandi college?

A causa di quell’infortunio, non sono riuscito a giocare durante quei tornei estivi che danno maggiore visibilità, ma chi mi seguiva ha visto che, nonostante il problema al ginocchio, ero riuscito comunque a fare una stagione incredibile. E così, anche se dopo l’operazione sono stato fuori quattro mesi, i college mi hanno notato lo stesso.

Da quell’infortunio sei infatti tornato molto più forte e l’anno dopo hai letteralmente trascinato  la squadra di Bishop Meige alla vittoria finale con 13.9 punti, 5.9 rimbalzi e 2.7 stoppate di media a partita. Cosa è scattato in te dopo l’infortunio? Che ricordi hai del tuo anno da senior e della finale?

Sì, volevo dimostrare a tutti le mie potenzialità, e far vedere che potevo ambire a giocare per i grandi college. Ho quindi dato il massimo nella mia stagione da senior e sono iniziate ad arrivare le prime proposte. Il mio ricordo più bello è legato al pre-partita: ricordo perfettamente il mio stato d’animo, un misto tra felicità nel poter rigiocare la finale che avevo saltato l’anno prima, la determinazione di fare del mio meglio e il nervosismo per la consapevolezza che quella sera ci sarebbero stati molti coach lì ad osservarmi. Era una grandissima opportunità per mostrare tutte le mie potenzialità e non volevo assolutamente mancarla.

E infatti hai realizzato ben 21 punti. Da quella vittoria sei entrato nel radar di molti college, tra cui Virginia e Illinois. Come sei arrivato alla scelta dei Cavaliers? Cosa ti ha conquistato di Virginia?

È stata una scelta davvero difficile, anche perché fino all’ultimo giorno ero molto indeciso tra le due. Poi ho scelto Virginia perché, oltre ad essere una università storica e con un ottimo programma di basket, mi ha colpito molto il fatto che durante tutti i colloqui che ho tenuto con loro, si sono interessati molto di più a me come persona che come giocatore. Abbiamo parlato davvero poco di basket e molto di me: quali erano le mie ambizioni, la mia storia e come stava il mio ginocchio. Inoltre, coach Bennett mi ha detto che sarei stato una pedina fondamentale del loro gioco e che avrei avuto un ruolo importante: proprio quello che cercavo. Infine, la scuola di business che volevo seguire qui a UVA è una delle migliori del paese.

Dato che lo hai citato, coach Tony Bennett è famoso per la sua ‘pack line defense’ e per la sua ‘motion offense’. Come si svolgono gli allenamenti per affinare il suo stile di gioco?

All’inizio è stata dura perché ho dovuto imparare tutto da zero, a camminare e a correre. Ma io amo la difesa e quindi inserirsi negli schemi è stato abbastanza naturale, anche se mi sono dovuto impegnare molto nel migliorare i dettagli – come per esempio guardare i compagni e gli avversari – che rendono la difesa di UVA una delle più forti (la migliore dell’Ncaa anche quest’anno con 52.7 punti concessi a partita). Il gioco qui al college è anche più fisico rispetto all’high school e all’Italia, e quindi inizialmente è stato difficile anche confrontarmi su questo livello. Gli allenamenti di coach Bennett non sono lunghi, ma molto intensi. A livello di difesa lavoriamo molto sugli scivolamenti, tagliafuori e su situazioni di gioco in tre contro tre.

Sei in una delle più antiche e importanti università americane, parlaci dei “Grounds”, cioè del campus di Virginia (che è anche bene protetto dall’Unesco) e della tua vita a Charlottesville.

È un campus storico con edifici davvero belli a livello architettonico: mi hanno colpito sin dalla prima volta che vi ho messo piede e ancora oggi, ogni volta che vado a lezione,  mi incanto a guardarli. La mia parte preferita del campus è il Lawn (il prato davanti al quale si affacciano tutti gli edifici secondo il disegno del terzo presidente degli Stati Uniti, Thomas Jefferson). Si respira un’aria di grande eredità storica e architettonica che rende l’esperienza scolastica qui a UVA unica nel suo genere.

Il Lawn del campus di Virginia

Come sai, in un video girato a Kansas ti hanno soprannominato “The Human Pogo Stick”. Te lo sei portato anche qui in Virginia? Ti ci rivedi?

Sì! (ride divertito) Quando ero all’high school mi piaceva “volare sulle teste” degli avversari! Hanno iniziato a chiamarmi “pogo stick” proprio per questo mio spiccato atletismo. A Bishop c’erano i ragazzi che riprendevano sempre queste prodezze e ne hanno quindi fatto un video inventandosi questo soprannome che mi sono portato anche qui a Virginia…ma se devo essere sincero, qui ci sono giocatori molto più alti di me e con molto più fisico e non riesco davvero a saltare sopra le loro teste! (ride ancora). Mi piace essere riconosciuto per questo, ma sto lavorando per diventare un giocatore più completo.

 

Coach Bennett spesso ferma i freshman con un anno da “redshirt” e lo stesso ha deciso di fare con te: come pensi di sfruttarlo al meglio? Su cosa vuoi e stai lavorando?

Voglio assolutamente migliorare e diventare più forte, e per questo mi alleno di più degli altri. Arrivo sempre un’ora prima agli allenamenti per poter lavorare da solo sul mio tiro e sugli altri fondamentali come gli scivolamenti. Il salto con l’high school è stato molto grande: voglio lavorare tanto per poter raggiungere i livelli più alti e giocare al mio massimo la prossima stagione.

Badocchi con altri due freshman di UVA, Marco Anthony e Austin Katstra

Ti fai chiamare Frankie e hai detto che in Italia non ti trovavi bene. Parlando del tuo futuro, ti vedremo mai con la maglia azzurra? Pensi di tornare a giocare in Italia oppure ormai il tuo futuro è negli Usa?

Anche se ho deciso di venire qui negli States a giocare e a crescere in termini cestistici, l’Italia rimane sempre nel mio cuore. A maggio tornerò in Italia e, se mi dovessero chiamare in nazionale, sarei davvero onorato di poter indossare quella maglia. Ho già chiesto il permesso qui a Virginia e mi hanno già dato il loro ok. Ma vediamo cosa succederà questa estate! Certo, se mi chiamassero, non avrei esitazioni!

Un amico di tuo zio ti aveva predetto che un giorno avresti giocato in Division I…ora che ci sei arrivato, cosa gli hai detto?

Sì, questo signore aveva visto le mie capacità da subito e aveva detto a mio zio che sarei riuscito ad entrare in un college di Division I. E così è stato! Appena ho firmato per Virginia l’ho chiamato per ringraziarlo di quello che mi aveva detto e della fiducia che aveva avuto in me.

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