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Jalen Brunson l’Imperturbabile

Autore: Riccardo De Angelis
Data: 18 Gen, 2018

C’è una point guard che ha già un anello da campione Ncaa nel cassetto e che sta mettendo insieme numeri da annali – di quelli che potrebbero valergli il titolo di POY – al servizio di una delle squadre più forti in circolazione. Eppure, se dovessimo stilare una lista dei giocatori più dibattuti sui social, Jalen Brunson rientrerebbe a fatica fra i primi trenta.

È strano, molto strano, eppure comprensibile. La Ncaa rappresenta molte cose, fra cui l’essere un’anticamera del professionismo: in tanti la osservano soprattutto in quest’ottica e quindi certe chiavi di lettura diventano naturali, ineluttabili. Sì, questa è la stagione dei lunghi che fanno salivare i GM di mezza NBA ed è anche quella dell’outsider fenomenale che risponde al nome di Trae Young. Il college basket è però un universo vasto che contiene mondi stupendi e diversissimi: c’è sempre così tanto che merita d’essere raccontato.

Quello di Brunson non è un mondo nascosto e anche il solo osservarne la superficie fa capire quanto sia speciale: 18.8 punti e 5.3 assist di media tirando con percentuali assurdamente alte (57.8% dal campo, 48.8% da tre) e un rapporto assist/perse da robot (3.52/1), specchio del playmaking più intelligente e in controllo che si possa ammirare oggi a livello di college.

“Old soul”: coach Jay Wright ama definirlo così. Un giocatore vecchia maniera, essenziale, dai fondamentali solidi, che si mette al servizio degli altri senza smanie di protagonismo. D’altra parte nel gioco del junior di Villanova c’è anche molto di moderno ed è proprio questa suggestiva combinazione di passato e presente che lo fa apparire unico, quasi senza tempo.

Faccia da pitbull e sangue freddo come il ghiaccio, i sorrisi concessi da Brunson sono persino più rari dei palloni persi. Prima ancora che nella tecnica, la sua forza sta nel carattere, in un’imperturbabilità che ha dovuto coltivare per proteggersi dai tiri mancini della vita.

Nel nome del padre

Le rivalità philadelphiane del Big 5 sono uniche per almeno un motivo: l’intensità con la quale sono sentite pur essendo immerse in un generale senso di mutuo e profondo rispetto. Ci sono eccezioni, ovviamente, come nell’incontro dello scorso 13 dicembre tra Villanova e Temple, con diversi spettatori di casa che, sin dalla palla a due, ne han dette di ogni al numero 1 dei Wildcats. Fra i vari epiteti, il più gentile era “traditore”. Già, perché Brunson è figlio di due ex studenti-atleti di quella università e sembrava destinato a vestire la divisa degli Owls. Certi tifosi non hanno mai perdonato la sua scelta, né imparato a risparmiare il fiato. Due anni fa, infatti, l’allora freshman rispedì gli insulti al mittente con una partita praticamente perfetta (25 punti in 23 minuti). Il mese scorso ne ha piazzati 31, di cui 22 in un primo tempo da iradiddio.

 

Quel che ha sperimentato al Liacouras Center non è però nulla rispetto a quanto passato durante l’ultimo anno di high school.

Il 2 aprile 2014 la polizia bussa alla porta di casa Brunson per arrestare il padre Rick: è indagato per tentato stupro. Il tribunale finirà per stabilire l’infondatezza dell’accusa ma tra arresto, processo e assoluzione c’è da passare un anno d’inferno, fra mormorii nelle strade e urla nelle palestre.

Quando Jalen mette piede sui parquet avversari, non è raro che sulle tribune si scatenino provocazioni grottesche. La rabbia è tanta, la trattiene a stento, ma sul campo riesce sempre a trasformarla in prestazioni che finiscono addirittura per decollare di pari passo col susseguirsi di risatine e insulti. La storia ci narra infine di un titolo di stato con la sua Stevenson, un premio di giocatore dell’anno, una convocazione come All-American e svariati rospi da ingoiare per i suoi detrattori.

Ragazzo o adulto, non importa: la maggior parte delle persone si spezzerebbe in una situazione del genere. Jalen, no. E questo, proprio grazie a suo padre.

Rick Brunson è uno di quegli ex cestisti che difficilmente rimangono impressi nella memoria degli appassionati: otto casacche diverse in nove stagioni NBA a cavallo fra anni ’90 e 2000. In mezzo, anche una toccata e fuga di quattro partite con la FuturVirtus di Claudio Sabatini. Più tagli incassati che punti di media in carriera, arrivato al culmine della frustrazione decide solennemente una cosa: che suo figlio, semmai avesse voluto diventare un giocatore, non avrebbe ripetuto i suoi stessi errori e sarebbe diventato molto più forte di lui.

Rick s’ispira quindi al tipo di trattamento ricevuto a Temple da coach John Chaney. Duro, implacabile, militaresco: Jalen cresce fra sessioni di tiro impostate meticolosamente e corse sotto il sole cocente con sottofondo di trash talking (“Non vuoi diventare un giocatore di basket! Non sai che cosa serva! Non puoi fare serata con gli amici! Devi sacrificare tutto!”). Lo vuole indurire, senza mezze misure. A volte, dentro di sé, Rick dubita del proprio approccio ma alla fine si convince di una cosa: se il figlio riesce a sopportare questo da lui, ci riuscirà poi con chiunque altro.

La teoria non fa una grinza, ma vai a dirlo a un adolescente: allenarsi senza sosta, beccarsi strigliate in pubblico alla minima trasgressione, veder rimpicciolito il proprio ego a dimensioni microscopiche. Jalen ha spesso detestato il padre, il loro rapporto era appeso a un filo che però, alla fine, non si è spezzato. Questo perché è riuscito a non mollare prima di avere finalmente gli strumenti per capire e condividere il senso di quella durezza, di quelle grida: distinguere la voce del coach da quella del padre.

Parafrasando il titolo di un famoso romanzo: tutto quel dolore, alla fine, gli è stato utile.

L’ascesa d’un leader

La Villanova nella quale Brunson esordì era quella guidata da Ryan Arcidiacono, colui che per quattro anni è stato l’alter ego in campo di Jay Wright. Due point guard che pensano prima a passare che tirare e che difendono mettendoci l’anima. Che fare? Farli giocare insieme, ovvio. Nella patria del 4-out 1-in, schierare tante guardie non è certo un problema e poco importa se i due si assomigliano così tanto.

Fra Jalen e Ryan, l’intesa fu immediata: una sintonia fuori dal campo diventata amicizia e, nel frattempo, tradottasi in un’ottima chimica sul parquet, con la matricola pronta ad assorbire gli insegnamenti del veterano e a scambiarsi continuamente di ruolo con esso, on e off-the-ball, in un sodalizio che fu una delle chiavi che portò al titolo nazionale del 2016.

In termini di leadership, quella era la squadra di Arcidiacono e Ochefu, cui poi seguì quella di Hart e Jenkins: quest’anno è il turno di Brunson e Bridges. Il ragazzo di Lincolnshire aveva già assunto un ruolo più prominente nella scorsa stagione e in questa era atteso a un ulteriore balzo in avanti: sarebbe bastato un saltello per onorare le aspettative mentre il suo, fin qui, è stato uno stacco da campione di salto in lungo.

Mike Jensen, giornalista sportivo di Philadelphia, sostiene di non aver mai visto nulla di simile a ciò che sta facendo Brunson. Viene facile credergli, specialmente se si vanno a confrontare le statistiche attuali del junior coi record stagionali fissati dagli altri giocatori di Villanova nell’era di Jay Wright, iniziata nel 2002.

PPG ’06 Randy Foye – 20.5 ’18 Jalen Brunson – 18.8 ’17 Josh Hart – 18.7
FG% ’16 Daniel Ochefu – 62.7 ’18 Jalen Brunson – 57.8 ’10 Antonio Pena – 57.7
3P% ’18 Jalen Brunson – 48.8 ’15 Josh Hart – 46.4 ’18 Mikal Bridges – 44.7
APG ’18 Jalen Brunson – 5.3 ’11 Corey Fisher – 4.8 ’12 Maalik Wayns – 4.6

A lasciare sbalorditi non sono soltanto i numeri di per sé, ma anche la continuità che li contraddistingue: in 18 partite, non ha mai segnato meno di 12 punti, solo in quattro occasioni ha tirato dal campo con percentuali inferiori al 50% (e senza mai scendere sotto il 40%), due volte ha distribuito meno di 4 assist e tre volte è arrivato a commettere 3 perse.

Non è il miglior difensore di Villanova, ma il suo spingersi oltre i limiti è tanto apprezzabile quanto di esempio per i compagni: non brilla per rapidità ma fa ottima guardia sui pick and roll e, pur mancando di taglia, si fa sentire a rimbalzo e ha abbastanza forza per opporsi ad avversari più grossi, risultando quindi utile sui cambi.

La metà campo offensiva, invece, è una sinfonia di qualità. Il suo non è un playmaking che offre grossi voli di fantasia, ma sa mantenere costantemente il polso della situazione, con capacità di lettura e di compiere la scelta migliore con tempismo e automatismi da professionista scafato, il che aiuta molto la squadra di Jay Wright a giocare efficacemente a velocità diverse. I Wildcats puntano tanto sulla circolazione di palla e sulla versatilità di giocatori capaci di manovrare l’azione: pur non passando tutto per le sue mani, Brunson rimane il cuore pulsante della squadra. Sono ben cinque i giocatori che viaggiano oltre i 2 assist di media e quelli distribuiti da lui rappresentano comunque il 30% del totale.

Gran parte dei suoi progressi sono avvenuti in fase realizzativa, dove l’innalzamento delle percentuali di tiro va a braccetto con una maggiore varietà di soluzioni, per meriti sia propri che dei compagni.

Come frequenza, le situazioni di post-up rappresentano una parte piccola ma molto significativa del suo attuale repertorio. Ora che in squadra c’è un lungo capace di aprirsi sulla linea da tre come Omari Spellman, Brunson può andare ad occupare gli spazi in area lasciati liberi dal movimento in uscita del big man e sfruttare la sua abilità nel gioco spalle a canestro contro gente della sua taglia. Gli avversari non hanno scelte vantaggiose: possono raddoppiare rischiando lo scarico fuori – non l’ideale contro una squadra che tira con un pauroso 42.1% dall’arco – o accettare un 1-vs-1 che Brunson tende a non fallire.

 

Anche se in maniera meno prominente, i blocchi sulla palla continuano a essere una parte importante del suo gioco offensivo. I pick and roll centrali sono spesso sfruttati per innescare il compagno sulla linea da tre (può essere un giocatore in uscita dall’area che scambia posto col bloccante o uno appostato lateralmente lungo l’arco) o per creare una conclusione personale in arresto e tiro, contando su proprietà di palleggio e mira ottime.

 

Fosforo, carattere, tecnica: Brunson ne ha a volontà e forse più di chiunque altro, oggi, nella Ncaa. Eppure non finirà al primo giro del prossimo Draft, forse nemmeno nella prima metà del secondo. Questo perché, per godere di quel tipo di considerazione, è necessario spuntare altre caselle. Papà Rick, da giocatore, aveva lo stesso problema, anche in misura maggiore rispetto al figlio: per questo motivo, tanti anni fa, volle condividere con lui alcune parole di Jeff Van Gundy che, ancora oggi, Jalen conserva, nero su bianco. Non serviranno a far salire le sue quotazioni ma, da sempre, lo aiutano in qualcosa di ancora più importante: non dimenticarsi mai chi è né quel che vuole diventare.

«La maggior parte della gente, quando parla di talento, parla semplicemente di atletismo nel senso di velocità, rapidità, salto, taglia e forza. Questa non è una corsa campestre. Ci sono altre cose che contano. La tecnica è talento. L’intelligenza è talento. Fare le scelte giuste è talento. La durezza, sia mentale che fisica, è talento. L’energia e l’intensità sono talento. Lascia perdere il talento. Concentrati su produzione e continuità.»

 

Bibliografia minima

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