Ogni parola che pronuncia è carica di un’energia particolare. Andrea Comini è quasi un fiume in piena, che trasmette una passione per il suo lavoro e per la pallacanestro contagiosa. D’altronde “passione” è un termine che chiacchierando con lui ricorre spesso. Andrea oggi è Strength & Conditioning Coordinator a Northern Iowa ed è nel posto in cui voleva stare fin da ragazzo, al college, in mezzo ad altri ragazzi. “La nostra gioia, le nostre soddisfazioni, non si basano solo sulle vittorie o sulla fama. Anzi, quelli sono aspetti minimi. L’allenatore, perché qui anche il preparatore lo chiamano coach, è guidato da una passione diversa, dalle vittorie personali dei ragazzi. Ad esempio prendiamo Ted…”
Aspetta Andrea, a Ted ci arriviamo dopo, partiamo dall’inizio. Come sei finito a Northern Iowa?
Eh (ride), pensa che all’inizio mi ero iscritto a ingegneria.
Comini è nato a Gavardo, in provincia di Brescia e dopo anni negli Stati Uniti l’accento lombardo è ancora ben presente.
Ma come ingegneria?
Sì, ma ho capito quasi subito che non era la mia strada e così sono passato a educazione motoria. Il mio sogno è sempre stato quello di lavorare in Ncaa e ho cercato di costruirmi un percorso lavorativo che potesse alla fine essere interessante per il mondo delle università.
Ti sei laureato nel 2005 a Verona, e poi?
Poi, una volta laureato, non è che in Italia sia pieno di posti che ti offrono lavoro. Ho iniziato ad occuparmi delle giovanili della NBB Brescia, i primi a credere in me, con cui ho maturato un’esperienza fondamentale, e poi delle giovanili della Scaligera Verona. Sperimentavo tecniche di preparazione in soffitta con alcuni ragazzi, uno in particolare, che mi facevano da “cavie” (ride). E poi facevo l’insegnante con i bambini, sia per portare a casa due soldi sia perché è fondamentale imparare a relazionarsi con i più giovani. Dà una soddisfazione che… ah ma non ho finito di raccontarti di Ted…
Ah ah ah, aspetta con questo Ted, finiamo la tua storia. Come sei finito da Verona negli Usa?
Ok, come ti ho detto ero innamorato del college. C’è una partita che mi ricorderò sempre: la finale del Torneo 2003 vinta da Syracuse contro Kansas, e c’era un giocatore che mi faceva impazzire, Gerry McNamara. Lui giocava credendoci davvero. Ho iniziato a contattare le università che conoscevo, prima quelle più grandi come Michigan o Kansas, anche Georgetown. Poi ho capito che dovevo cercare qualcuno che fosse esperto nel settore della preparazione.
Northern Iowa lo era?
Quando Jed Smith, che era head strength and conditioning coach, ha visto i video che gli avevo mandato pare abbia detto: “io voglio qui questo ragazzo”. E questo perché era rimasto colpito dal fatto che non avesse mai visto nessuno fare quello che gli proponevo. Avevo bisogno di qualcuno come lui.
Il racconto poi si complica, i viaggi si mischiano tra andate e ritorni, fra le pratiche burocratiche e il visto per l’apprendistato. A un certo punto si arriva alla donazione da un milione di dollari da parte di un ex allievo di UNI (donazione al coach, non all’ateneo) che ha portato, alla fine, all’assunzione di Andrea in pianta stabile a Northern Iowa.
E così alla fine sei riuscito ad arrivare dove volevi, al college. Hai trovato il mondo che ti aspettavi?
Assolutamente sì, ho realizzato un sogno. Te ne dico una: ho comprato una macchina che però non funzionava bene, aveva dei problemi. La portavo a riparare, ma non si sistemava mai. A un certo punto il coach (Ben Jacobson, un’istituzione nell’Iowa) mi dice: “Lasciamela, la porto io dal meccanico”. Capisci? Un coach che guadagna un milione di dollari che si preoccupa della tua macchina. Questo è un mondo meraviglioso.
L’avete aggiustata alla fine?
Mah sì, più o meno. C’è solo il finestrino del guidatore che non si può alzare.
Ma come?
Eh, me ne sono accorto perché mi sono fermato in macchina per salutare un amico e poi non tornava più su. Sono dovuto tornare a casa con il finestrino abbassato. (Scappa inevitabile la risata) Eh no, non fa tanto ridere, c’erano -10 gradi.
La storia della macchina e del finestrino non c’entra molto con il basket, ma scriverla permette di capire sia che mondo è quello universitario, dove spesso lo staff è considerato una seconda famiglia, sia che tipo è Andrea, che spara un aneddoto dietro l’altro. Impossibile trascriverli tutti.
Parliamo del tuo lavoro, di quello che fai.
Sono contentissimo di avere avuto questa opportunità. E poi ho portato “aria nuova” nelle tecniche di preparazione atletica. E poi ci sono casi come quello di Ted, adesso posso parlarne?
Aspetta, in che senso “aria nuova”?
Qui vengono dal football. La cultura di base è quella del football. Noi dall’Europa pensiamo che pratichino tutti gli sport, ma è solo perché la stagione di football dura poco. Il preparatore vive in palestra ma, finita la sala pesi, è quasi come se avesse finito. Io invece lavoro sui movimenti. Il lavoro con la palla è fondamentale. Anche se il regolamento Ncaa sugli allenatori impone paletti rigidissimi, solo il coach e tre assistenti possono usare il pallone.
Prima di Ted, parliamo di Jed Smith.
E’ un omone di 1,95 per 120 kg, ex preparatore atletico dei Minnesota Vikings, che si allena tutti i giorni alle 5 di mattina. È lui che ha fatto il mio nome a coach Jacobson quando si è trattato di avere un preparatore atletico fisso per il basket. Abbiamo sviluppato un ottimo rapporto. Tra l’altro l’anno in cui sono entrato in pianta stabile, il 2015, è andato oltre ogni aspettativa, anche se siamo arrivati secondi in regular season.
Beh, ma avete raggiunto il Torneo.
Sì, ma per loro è importante quanto la stagione regolare. Questo dall’Italia o dall’Europa non si capisce, e io stesso faccio ancora fatica. Noi diamo importanza “solo” ai tornei, quello di conference e poi quello Ncaa. Per loro invece la stagione regolare della Missouri Valley è la cosa più importante. A fine campionato iniziava il torneo di conference, eravamo arrivati secondi dietro Wichita State e io avevo commentato: “Bene, così in semifinale affronteremo la terza e non la quarta, che è più forte”. Non l’avessi mai detto…
Diciamo che però almeno quel torneo di conference è andato bene
Sì, ecco su quel torneo te ne racconto un’altra.
Vai.
La finale era contro Illinois State che aveva battuto Wichita State. Alla fine del primo tempo eravamo sotto di 14 punti, e per noi che abbiamo storicamente un’ottima difesa ma non un grande attacco, era un problema serio. Coach Jacobson, che tutti si aspettavano si sarebbe infuriato e avrebbe urlato come un pazzo, invece era tranquillissimo. Non aveva mostrato un filo di preoccupazione o nervosismo. Dopo 10 minuti della ripresa, eravamo sopra di 3 punti. Poi il coach mi ha svelato che stava malissimo, proprio fisicamente, e non aveva avuto le energie per una sfuriata. Il buffo è che invece era apparso totalmente in controllo. In ogni caso è servito.
Avete vinto e poi torneo Ncaa…
Sì, eliminati al secondo turno da Louisville, con Terry Rozier che ci ha fatto a fette. Atleta di un altro pianeta.
Quest’anno come sta andando?
Siamo partiti con una non-conference schedule molto difficile e siamo arrivati inaspettatamente in finale contro Villanova (al Battle 4 Atlantis, il torneo che si gioca alle Bahamas) e comunque siamo stati in partita. Poi abbiamo perso contro Iowa State, ma anche in quel caso siamo stati in partita. Poi però è iniziata la conference, dove le partite sono più tattiche, le squadre ti conoscono da anni e ti scoutizzano da anni. E non sta andando benissimo.
Come pensi si possa uscirne?
Non c’è una ricetta, non c’è una singola risposta. Il bello è che si respira sempre un clima positivo, anche se il record è negativo (3-8 al momento). È una fortuna stare qua.
Qual è il giocatore più forte della squadra?
(Prende tempo per pensare) Faccio davvero fatica a risponderti. L’anno scorso avevamo un giocatore veramente forte, Jeremy Morgan che ora è in G-League nella squadra di Memphis. Quest’anno abbiamo tanti buoni giocatori. Isaiah Brown può marcare chiunque, ma deve lavorare sulla selezione di tiro, Tywhon Pickford e Bennett Koch hanno dei limiti ma sono molto forti. Non saprei davvero. Sai, al college non conta il nome che hai scritto dietro la maglia, ma quello che hai scritto davanti. Si gioca tutti per Northern Iowa.
Il più forte che hai visto giocare quest’anno?
Di quelli che ho visto, mi ha colpito Jalen Brunson. Aveva il pieno possesso delle sue potenzialità, aveva il controllo perfetto del campo e di quello che voleva fare.
In realtà il primo nome che fa Comini (in una chiacchierata troppo lunga per essere riassunta in un articolo) è Matias Fernando Chahab, giocatore argentino protagonista al Mondiale under 19 del 1999, sconfitto in semifinale dalla Spagna di Pau Gasol e Juan Navarro. Un altro idolo di Andrea è Kurt Warner, giocatore di football uscito da Northern Iowa, snobbato dalla NFL, finito agli Amsterdam Admirals e poi infine diventato due volte MVP della lega e MVP di un Superbowl.
Cosa avevano in comune?
Ci credevano. Credevano in loro stessi. Anche per la Final Four, la classica domanda che fanno tutti che magari volevi farmi anche tu è ‘quali sono le favorite per arrivare alla F4?’ (In effetti la domanda era prevista. Sparita subito) Non ci arrivano necessariamente quelle che hanno più talento. Ma quelle che ci credono di più.
La chiacchierata ormai sta per finire. Inizia la fase dei ringraziamenti e dei saluti. No, aspetta! Dice Andrea, la storia di Ted!
Ah è vero! È arrivato il momento. Parlaci di Ted.
È uno dei nostri lunghi (Ted Friedman) e non vede molto il campo, è un ragazzo che all’inizio faceva fatica a giocare. Gli ho detto in allenamento: “Tu autorizzami a darti un calcio nel sedere se ti vedo con la faccia impaurita. E quando segnerai una tripla in partita mi dirai: ‘Ce l’ho fatta’. Beh, contro Illinois State ha segnato. E durante il time out, mi ha cercato con uno sguardo di intesa, felice. La mattina dopo la gara si è presentato in palestra prima ed è stato un’ora a tirare da 3. Ecco, questo è il bello del mio lavoro.