Atleta, donna, musulmana, guineana, fondatrice e CEO di WAKE. Così si descrive Batouly Camara nel suo profilo Instagram. Ed è orgogliosa di tutte queste identità. Nata e cresciuta a New York in mezzo ai playground, Batouly, che nel 2014 era il prospetto #9 per ESPN, ha giocato la sua stagione da freshman a Kentucky per poi approdare a UConn. Un passaggio che non solo le ha permesso di diventare una promettente atleta, ma che le ha aperto anima e cuore a quello che è ora diventato il suo obiettivo più importante: dare alle donne e ai bambini una possibilità attraverso il basket.
Per il suo impegno fuori e dentro il campo, Forbes l’ha inserita nella lista degli atleti U30 più influenti della sua generazione. Ecco cosa ci ha raccontato del suo progetto WAKE (Women And Kids Empowerment) e di come il basket sia il mezzo migliore per promuoverlo.
Innanzitutto, congratulazioni per questo risultato. Come hai reagito alla notizia?
È stata davvero una grande sorpresa. Lavoro su questo progetto da due anni e rientrare tra quei nomi era un mio sogno. Che dire? È un grande onore ma anche una grande responsabilità.
In che senso “una responsabilità”?
La nomination su Forbes dimostra il nostro impegno e serietà. È sicuramente una vetrina importante che farà conoscere WAKE a livello internazionale e ci permetterà di creare nuove reti. Io non prendo mai le cose alla leggera e quindi so che ora è davvero importante impegnarsi per mantenere fede agli obiettivi che mi sono preposta con la mia fondazione.
Com’è nata l’idea di WAKE?
Dalla volontà di dare anche ad altre ragazze le stesse opportunità che ho avuto io nella mia vita. Quando sono andata in Guinea la prima volta, ho visto con i miei occhi le poche risorse utilizzate in favore della crescita delle ragazze. In casi come questi, anche i sogni sono limitati. Intorno a me ho visto bambine e giovani donne che meritano una possibilità e che devono essere incoraggiate nel trovare la loro strada. E io voglio aiutarle.
E come può il basket aiutare a fare ciò?
È uno sport che si fonda sul gioco di squadra, sul condividere, sullo sviluppo di quelle competenze, come la leadership, la resilienza, la gestione del tempo e la consapevolezza di sé che sono fondamentali nella vita. Usarlo come mezzo per ottenere questi risultati mi è sembrata una sfida degna di essere intrapresa. Inoltre il basket è uno sport che non ha bisogno di tanti attrezzi per essere giocato, può adattarsi facilmente ad ambienti molto diversi ed è uno sport per tutti.
Che tipo di progetti hai messo in moto per i più giovani?
Per i bambini ho scritto A Basketball Game on Wake Street, un libro di 24 pagine che ha come protagonisti un gruppo di ragazzi e ragazze dai background più disparati che si riuniscono per giocare a basket. È un inno all’inclusione, alla diversità e all’unicità del singolo. Ho parlato del basket che conosco: uno sport bellissimo che ti permette di stare insieme ad altre persone, di esprimerti e di essere te stessa. Il libro vuole ispirare i più giovani in un momento in cui, a causa della pandemia, non hanno grandi possibilità d’interagire con gli altri e tendono a chiudersi.
Da dove hai tratto ispirazione per questa storia?
Ho attinto a piene mani dalla mia vita personale e dalle storie delle mie compagne di squadra o di altre atlete. La madre di una delle ragazze è mia madre in tutto e per tutto. Una delle protagoniste si ispira a Sarah, ragazza con la sindrome di down sorella di Molly Bent, una mia ex compagna di squadra. Un’altra intraprende la stessa lotta contro il cancro come Tiana Mangakahia, guardia di Syracuse il cui coraggio mi ha sempre ispirato.
Come funziona invece la boarding school che stai progettando?
È un progetto che stiamo cercando di attivare e che sarà rivolto alle donne della terra natale dei miei genitori, la Guinea. Lo sport e il basket s’inseriscono in un progetto più grande che vuole dare a queste giovani donne il potere di decidere il loro futuro. Parliamo loro di uguaglianza di genere, di lavoro di squadra, diamo loro consulenze lavorative e borse di studio per poter proseguire i loro studi.
Da dove nasce questa vocazione di aiutare e ispirare gli altri?
È stato un processo molto lungo che si è poi consolidato durante i quattro anni di college. Oltre ai miei studi (Sport Management), l’ambiente che ho trovato a UConn mi ha permesso di maturare ed essere più sensibile su questi temi.
Sappiamo tutti che il programma di UConn è uno dei più importanti nel panorama del basket femminile; ma come ti ha ispirato su questi temi?
Vi racconto un aneddoto legato a coach Geno Auriemma. Durante un’intervista, gli hanno chiesto di me e lui ha risposto dicendo: “Ho in squadra un’atleta la cui identità (immigrante di prima generazione, donna di colore e musulmana) non viene vista in maniera positiva da molte persone. Qui le diamo il nostro massimo supporto”. Quelle parole dimostrano che dietro una grande squadra ci sono innanzitutto grandi persone. I quattro anni a UConn mi hanno dato la giusta dose di fiducia e la grande ispirazione per iniziare il mio progetto.
Qual è il tuo ricordo più bello del college?
Lo so che non c’è niente che possa superare le Final Four (Batouly ne ha giocate due), ma il mio ricordo più bello è legato alla Senior Night. Per l’occasione, l’università invita tutti i famigliari degli atleti: è un momento bellissimo, una specie di incoronazione di tutti i tuoi sforzi come atleta e come studentessa.
Tua madre si è emozionata?
Tantissimo! Non smetteva di piangere. Vedere nei suoi occhi quanto fosse orgogliosa di me è stato il regalo più bello di quella serata.
Ti ha sempre supportata nella tua scelta di giocare a basket?
In realtà no. Per lei tutto ciò che esulava dallo studio era una perdita di tempo. Per i miei due fratelli era diverso, ma loro erano maschi e lo sport non gli era precluso.
Come ti sei avvicinata al basket allora?
Ho iniziato a giocare a 12 anni. Nel quartiere intorno a me era pieno di campetti dove tutti giocavano, rimbalzi di palloni e scarpe ovunque. Inoltre già all’epoca ero molto alta (ora è 188 cm). Quando a scuola mi sono avvicinata allo sport, il basket è stata la scelta più ovvia.
È stato un colpo di fulmine o un processo un po’ più lungo?
Mi sono innamorata all’istante di questo sport. Quando ho iniziato a palleggiare e a tirare, ho provato una sola cosa: libertà! Libertà di essere me stessa in campo, con i miei sogni e le mie paure, di stare fuori all’aria aperta, di sbagliare, di stare con le mie compagne e di fare nuove amicizie. Il basket è stato, e continua ad essere, il mio “luogo felice”.
In casa non avevi tutto questo?
Io sono nata e cresciuta a New York, ma nella mia famiglia vigevano la cultura e i valori guineani: gentilezza, lavoro duro e senso della comunità erano i tre pilastri. Per i miei genitori, il duro lavoro era quello che avrebbe dato i frutti maggiori, ma era anche importante condividere e prendersi cura degli altri. Principi di vita che ho ritrovato nel basket e che mi hanno resa una donna e un’atleta migliore. E sono gli stessi principi che voglio trasmettere attraverso WAKE
Un altro valore importante per te è la religione. È stato difficile per te conciliare la tua fede con il basket?
La religione fa parte di quello che sono ed è parte integrante della mia vita: sono un’atleta musulmana. In realtà non è mai stato un problema per me: in campo conta solo dare il meglio di sé e, se la mia fede mi aiuta ad essere la migliore versione di me stessa, allora va bene. Se devo essere sincera, diventando una professionista quest’anno un po’ paura l’avevo su come avrebbero accolto il mio hijab, ma ho scoperto che se si è sicuri della propria identità, della propria storia e della propria strada, tutto passa in secondo piano.
Quindi possiamo dire che hai veramente trovato la tua strada?
Sí! Diventare un’atleta professionista era il mio sogno da quando ho messo piede in un campo da basket e ora qui in Spagna (al Embutidos Pajariel Bembibre PDM dove gioca come ala grande) ho una opportunità che voglio cogliere fino in fondo. E poi c’è WAKE, il mio progetto, il mio sogno e il mio obiettivo più grande.