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Viaggio al centro della Stella Azzurra

Autore: Paolo Mutarelli
Data: 4 Gen, 2017

 

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C’è in Italia una società che ha un legame particolare con gli Stati Uniti e che riceve abitualmente visite di scout di college americani. C’è chi la considera un’eccellenza italiana e c’è chi la critica, quello che è certo è che la Stella Azzurra di Roma ha struttura, metodi di reclutamento e obiettivi diversi da tutti gli altri. Per questo siamo andati a scoprirla più da vicino.

La prima sensazione che si ha appena entrati all’interno del campus è quella di iniziare un viaggio all’interno di un mondo a parte, in una sorta di enclave di cultura americana trapiantato nella Via Flaminia della capitale. Non c’è solo una palestra ma una serie di strutture che vanno dal palazzetto alla sede ufficiale fino alla foresteria, e dappertutto si respira calore familiare, come quando vai a casa degli zii che non vedi da secoli e hai la sensazione di essere in un posto confortevole.

La prima squadra della Stella Azzurra milita in serie B ma la società è nota soprattutto per il suo settore giovanile, che spesso è ai vertici (quando non domina) nelle varie categorie della pallacanestro italiana e ben figura nei tornei internazionali. Il nome più famoso prodotto dal loro vivaio è ovviamente quello di Andrea Bargnani ma, dopo “il mago”, altri ragazzi negli ultimi anni si sono messi in evidenza, alcuni dei quali hanno deciso di affrontare l’esperienza americana, come Amar Alibegovic a St. John’s o come la coppia Mattia Da Campo-Scott Ulaneo da questa stagione alla Seattle University.

Entri nel campus e respiri aria di basket e ogni cosa sembra organizzata nei minimi dettagli con l’obiettivo di far crescere i ragazzi. In estate uno dei campi esterni chiuso da un pallone gonfiabile si trasforma in una piscina e la foresteria (che ospita una quarantina di ragazzi ed è praticamente attaccata al palazzetto) non chiude mai, se non per un breve momento, e dispone di aule per lo studio e sale comuni in cui divertirsi e rilassarsi.

Il playground Stellino e sullo sfondo il palazzetto

All’ingresso nel palazzetto notiamo una serie di ragazzi e ragazze allenarsi insieme ai coach e un piccolo gruppetto che comprende anche coach Germano D’Arcangeli alle prese con una strana apparecchiatura. Scopro che si tratta di “visual training”, uno strumento che permette di vedere ciò che vede chi indossa dei particolari occhiali e registra come reagisce l’occhio agli stimoli esterni. Viene voglia di indossarli ma nel frattempo ci sediamo in sala video con il direttore sportivo nonché gestore del reclutamento Giacomo Rossi e con l’addetto stampa Paolo De Persis, pronti per la chiacchierata con BasketballNcaa.

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Rossi, la Stella Azzurra ha uno dei settori giovanili più forti d’Italia, cosa vi distingue dagli altri?

Grazie per i complimenti, posso dire che quello che ci contraddistingue è il fatto che non siamo un settore giovanile, sarebbe riduttivo e sbagliato definirlo così.

Ma come? Questa è una sorpresa. E come lo definirebbe?

Forse il termine Academy o anche Prep School è più appropriato perché facciamo qualcosa di diverso, anche i ragazzi lo percepiscono quando arrivano all’interno dell’organizzazione. Molti vengono da noi perché sanno che il settore giovanile è importante, ma non si rendono conto che qui noi ci sono un’infinità di cose diverse. L’attenzione viene messa su molte altre cose, non solo sul basket. La struttura, sia intesa come palazzetto che societaria, è in funzione di questo.

Ci spieghi meglio, oltre al basket cosa c’è?

Siamo pronti a soddisfare ogni tipo di esigenza, partendo dallo studio, passando per l’alimentazione e l’attenzione al gioco. Secondo me, la nostra unicità è che facciamo cose che gli altri non fanno, anche sbagliando.

In che senso sbagliando? Qualcuno vi critica?

Diciamo che abbiamo il coraggio di applicare un metodo di questo tipo, perchè non ci piace il modo di fare qui in Italia. Fare le cose in modo diverso, sbagliato o no, significa essere visti con curiosità o con disprezzo, dipende dai punti di vista, ma sempre con occhi diversi.

Giacomo Rossi

Giacomo Rossi

“L’associazione sportiva della Stella Azzurra ha lo scopo di propagandare e diffondere la pratica delle discipline sportive dilettantistiche tra i giovani, come elemento di sana educazione fisica e spirituale”. Come mai parlate di educazione fisica e spirituale?

Sono le parole dello statuto scritto 80 anni fa, parte integrante dell’academy. Al di là del discorso morale, per far diventare dei giocatori di basket di un certo livello bisogna lavorare sulla mente e sul corpo. L’esperienza ci ha insegnato che solo determinate persone arrivano ad un certo livello, perché non basta saper insegnare a tirare o a correre, bisogna farli crescere come persone.

Può fare qualche esempio?

Ci sono ragazzi che hanno giocato qui per anni che ora lavorano al Cern (in Svizzera) o a New York, e credo che il lavoro fatto con noi abbia avuto la sua importanza in questo percorso. E questo funziona anche col basket. Parere personale: un giocatore, per arrivare a un certo livello, deve essere ossessionato dal fatto di essere il più forte di tutti. Giocatori come Russell Westbrook o Stephen Curry sono così, oltre che per il talento naturale, perché si alzano alle cinque di mattina e se non gli fanno fare mille tiri prima di tornare a casa non sono contenti.

Anche coach Zen usava farlo con Lakers e Bulls

Voi lavorate su questo?

Questa ossessione purtroppo non si può insegnare, o ci nasci o non ce l’avrai mai, ma sicuramente il nostro lavoro è quello di coccolarla e non di estirparla. Spesso ad esempio se un ragazzino fa 50 punti al minibasket gli si dice che deve passare la palla.

Invece cosa gli dite?

Un giocatore diventa diverso, unico, quando è ossessionato dall’esserlo. Negli States, un giocatore è libero di potersi allenare a tutte le ore e non limitarsi solo alle ore di allenamento “obbligatorie”, mentre in Europa spesso è cosi, e qui alla Stella Azzurra proviamo a fare questo, essere noi a completa disposizione del giocatore. Il nostro sogno è quello che un giocatore si arrabbi perché alle sei di mattina la palestra non è aperta.

Il vostro è un modello unico in Italia. L’obiettivo è garantire la possibilità di fare sport ad alto livello senza rinunciare all’insegnamento?

È uno dei fattori che ci caratterizzano. Abbiamo speso tante risorse per creare una scuola interna. Abbiamo ragazzi che provengono da cinque continenti e che parlano in tutto 12 lingue, per questo abbiamo deciso di aprire una scuola interna. Poi c’è quell’approccio diverso che ci contraddistingue.

Ovvero?

Come detto, l’insegnamento è uno strumento per migliorare la persona, ma i ragazzi vengono qui per la pallacanestro perché sanno che se possiedono un qualcosa in più, qualcosa di speciale, qui viene tutelato più che in altri posti in Europa. Quel qualcosa in più non è solo tecnica, ma un di più a livello fisico, comportamentale o di comprensione del gioco.

Il tradizionale huddle prepartita Stellino

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Dopo la serie A e la coppa Korac negli anni ’70, avete progressivamente puntato più sullo sviluppo di giocatori. Come mai?

Sostanzialmente quando è arrivato Germano (coach D’Arcangeli, ndr), la Stella Azzurra era morta. Lui ha ripreso in mano il programma 20 anni fa e l’ha fatto crescere passo dopo passo. Certo, la prima squadra è sempre stata la vetrina dei ragazzi. Tempo fa, i giocatori esordivano in serie C, dieci anni fa in serie B, 3 anni fa in LegaDue e adesso vanno al college o in Eurolega.

State crescendo, non serve una prima squadra più “seria”?

Forse ora la serie B inizia ad esserci un po’ stretta, perché abbiamo ragazzi forti di 15-16 anni per cui quel livello non è il massimo, anche come tipo di gioco. A volte paradossalmente sarebbero più in grado di giocare contro North Carolina che contro Scauri, senza nulla togliere a una squadra di giocatori esperti italiani.

Volete cambiare?

La serie B non è il contesto ideale, ma per il momento può andare bene perché, se vinciamo, lo facciamo a fatica e spesso perdiamo. Quindi i ragazzi hanno ostacoli da superare ed è proprio quello che vogliamo. Nelle giovanili invece di solito gli ostacoli arrivano a fine stagione o, addirittura, solo nei tornei perché in Italia spesso vinciamo di tanto. In serie B gli ostacoli arrivano sin dalla prima giornata e a volte sembrano anche insormontabili. Ma gli ostacoli fanno crescere e per questo cerchiamo di proporgli percorsi in cui ce ne siano il più possibile.

Come sono i rapporti con la Fip?

Direi ottimi. Spero siano orgogliosi di noi perché abbiamo moltissimi giocatori italiani e quasi ogni rappresentativa italiana ha un paio di rappresentanti “stellini”, sia al livello maschile che femminile. I ragazzi si cibano del contesto internazionale della Stella perché allenarsi tutti i giorni con giocatori del calibro di Nikolic e Cassar è diverso che allenarsi con un bravo ragazzo italiano che però non ha lo stesso talento. Spero ci guardino con orgoglio.

Da che età fate iniziare la formazione di un ragazzo?

I bambini iniziano qui dal mini-basket a cinque anni, mentre la formazione di cui abbiamo parlato sopra inizia a 12-13 con squadre sia maschili che femminili. Capita che con i maschi creiamo due squadre, però solitamente è un gruppo di 30 persone che lavorano insieme. Ad esempio, nella nostra formazione di serie B, abbiamo ragazzi del 2002 insieme a ragazzi del ’99 e del ’98. Quest’anno volevamo far giocare in B anche un 2003, ma il regolamento non lo consente. Abbiamo chiesto delle deroghe che non sono state concesse. Tipica situazione che in America non sarebbe avvenuta, lì se un ragazzino è forte, gioca.

Come reclutate i giocatori all’estero e loro da cosa sono attratti?

Ci sono più tipologie di modi di scoutizzare. Ora è più semplice. Continuiamo ad aver tanti ragazzi che si propongono e sta a noi vagliare queste proposte. Di solito però se qualcuno si propone, non è un giocatore così clamoroso. Partecipiamo a tanti tornei all’estero per vedere tanti ragazzi, e ormai abbiamo una rete di contatti in tre continenti che, a volte, ci permette di arrivare un anno prima rispetto ad un club europeo o alle academy statunitensi.

Chi sono i vostri principali competitor?

Stiamo cercando di reclutare ragazzini di 14 anni ma ci sono molti competitor come Barcellona, Real Madrid o Monteverde Academy. E con le riforme del CBA, presto anche la NBA lavorerà sui giovani. É difficile competere con realtà del genere.

Quindi come fate?

Dobbiamo arrivare prima e far capire al ragazzo che non c’è problema se in futuro andrà al Real Madrid o in NBA, ma che noi potremmo agevolare questi passaggi. Se sei Doncic ok, è giusto andare al Real, ma se non lo sei, il percorso inverso è traumatico. Noi siamo ancora un club intermedio, ci rivolgiamo al mondo dei professionisti ma possiamo affrontare gli errori dei ragazzi, e sappiamo far crescere il loro talento o capire il carattere. Al momento siamo una rampa di lancio, sappiamo che da qui andranno via.

Come è nato il vostro rapporto con il mondo collegiale americano? C’erano contatti prima del reclutamento di Alibegovic da parte di St. John’s o quello è stato il fattore scatenante?

No, c’erano già contatti perché in estate da anni alcuni college vengono a disputare amichevoli estive, anche prima che partisse il College Basketball Tour. É sempre stato divertente vedere le università allenarsi perché sono un mondo diverso. Visto dall’interno, a volte c’è meno arrosto di quanto si pensi, però per me è un paradiso.

Possiamo dire che con Alibegovic i rapporti si sono intensificati?

Dopo il reclutamento di Amar, ci sono stati i primi contatti dall’interno. Gli scout che venivano a vederlo venivano a esporci il loro modo di fare e di lavorare, ci hanno invitato in America. Un college che all’inizio voleva reclutare Alibegovic poi è tornato per vedere La Torre e dopo ancora per vedere Ulaneo e Da Campo. Adesso si è innescato un meccanismo tale per cui ogni mese ci sono 2/3 college che vengono a vedere i ragazzi.

Quali osservano?

Vengono già a vedere i 2003, cioè la classe che sarà reclutata tra cinque anni, però sanno che quando vengono qua, trovano almeno venti giocatori capaci di andare al college.

Ci sono giornate dedicate o gli allenamenti sono sempre aperti?

Gli allenamenti sono sempre aperti, la porta della palestra si chiude solo in occasione del memorial per Mario Delle Cave (un giovane della Stella Azzurra scomparso per un incidente nel 2011). Le università hanno regole molto rigide in termini di reclutamento, quindi avvisano prima di venire.

Adesso ci sono cinque “stellini” negli States. Iniziate a farvi un nome tra le università?

Prima eravamo più conosciuti dagli scout NBA, per la tappa che organizzavamo dell’Adidas Next Generation ma anche per i trascorsi di Bargnani. La moda degli europei/italiani ai college è iniziata piuttosto recentemente. Forse a breve inizierà quella delle High School. Sono quasi certo che tra cinque anni i migliori italiani saranno divisi tra college e HS. Bisogna considerare anche che al momento conosciamo solo i vantaggi dell’andare a college, mentre quando i primi italiani torneranno si conosceranno anche gli svantaggi, tecnici, fisici o morali.

Che differenza c’è tra college e high school?

Abbiamo avuto ancora poche esperienze con le high school. Per il momento, dato che in America non esiste la concezione di club come lo intendiamo noi in Europa, hanno provato sostanzialmente a bypassarci cercando di palare direttamente con il giocatore o con i genitori. Ci hanno visto come un ostacolo. Ecco, non c’è cosa più sbagliata perché noi stiamo dalla parte del giocatore e siamo contenti se fanno questo tipo di esperienze, per questo ha senso che parlino con noi. In sostanza però il reclutamento di college e high school è uguale, anche se le high school hanno meno risorse economiche e meno appeal.

Come mai Ulaneo e Da Campo sono andati negli States, mentre La Torre, prospetto che era più quotato, no?

È stata una sua scelta. La Torre a 16 anni ha avuto un contratto professionistico di 7 anni: è difficile dire di no a Milano. Poi immagino sia stata anche un scelta di vita. È difficile vivere in America, è un passo importante. Al quel tempo Andrea non sapeva l’inglese come Ulaneo e Da Campo. Lui ha avuto la fortuna di andare a Milano e ha preferito rimanere in Italia piuttosto che cercare la fortuna negli States. Se avesse deciso di andare al college, gli sarebbero arrivate offerte dopo un minuto, però ripeto: rimangono difficili l’ambiente e l’ambientazione. Ogni caso è diverso. I ragazzi che ora si trovano in America, sono venuti qui con quell’obiettivo.

I reclutamenti di Palsson, Alibegovic, Ulaneo e Da Campo sono stati diversi o ci sono state similitudini?

Tutti molti simili. Prima c’è stata la visita degli scout qui, con diverse chiacchierate con il giocatore. Poi li hanno portati lì, sfruttando anche il fascino che esercitano perché gli States sono come Disneyland. La bravura dei ragazzi deve essere quella di resistere, inizialmente, al fascino per essere concentrati sugli aspetti fondamentali, come lo sviluppo personale e quello della squadra. Noi li prepariamo a vedere le cose giuste perché devono scegliere un posto di lavoro e dopo quattro anni devono essere radicalmente cambiati.

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Mentre parliamo con Giacomo Rossi, coach Germano D’Arcangeli si unisce a noi. D’Arcangeli è il deus ex machina della società, allena un gruppo di ragazzi (una trentina) che disputano tre campionati diversi, la serie B, l’under 20 e l’under 18, e da quasi 30 anni è il volto della Stella Azzurra, con un legame paragonabile a quello che c’è tra alcune università e il loro coach. I ragazzi passano, mentre l’allenatore e il suo sistema di gioco restano.

Coach D’Arcangeli portato in trionfo dai suoi ragazzi

Coach, ha mai avuto contatti diretti con gli allenatori Ncaa?

Nella mia carriera ho avuto la possibilità di vedere e frequentare due o tre colleghi esperti come Bob McKillop (Davidson) o Rick Pitino (Louisville) che sono venuti qui. Ormai, anche con il fatto che i ragazzi sono andati negli Usa, mi capita di parlare una volta a settimana con coach o scout oppure li incontro durante i tornei.

Siete rimasti in contatto con i ragazzi negli Usa?

Cerchiamo di stargli vicino in vari modi, specialmente quando ne hanno bisogno. Non stiamo con loro quotidianamente, ma ad esempio a fine novembre ho visto Amar Alibegovic all’aeroporto a New York, mentre tre giorni prima avevo sentito Kristin Pallson, e Mattia mi ha scritto stamattina (giorno dell’intervista, ndr). Mi informano sulla loro vita, diciamo che li sento una volta alla settimana o dieci giorni.

Si sente più un allenatore da college o da serie A?

Sono da 29 anni in questo club e il mio approccio nei confronti della società è quello di un allenatore collegiale, cioè un coach che preferisce formare che utilizzare. Faccio più il padre che il manager.

Scott Ulaneo e Mattia Da Campo

Cosa le chiedono principalmente gli scout quando si parla di un giocatore?

Vogliono conoscere il giocatore. Nella loro testa hanno degli standard, delle tabelle, quindi vogliono confrontare le loro idee col nostro lavoro. Mi chiedono le caratteristiche fisiche, come l’apertura di braccia, o anche che tipo di pallacanestro gli piace. Sono curiosi del nostro mondo e cercano di capire come un allenatore italiano si sappia muovere in determinate situazioni di gioco.

Cosa deve aggiungere un giocatore proveniente dall’Italia/Europa al momento del suo arrivo in America?

Sicuramente noi siamo indietro dal punto di vista fisico. Là saranno costretti a giocare con gente più grande e più muscolare e quindi devono avere subito un impatto fisico sulla partita. Cambia anche la velocità con cui si adattano agli schemi dei coach. Qui li formiamo mentre la vanno a giocare contro tutto e tutti.

Quali sono le principali differenze nell’allenare la serie B e o l’under 20?

Dal punto di vista pratico nessuna perché i miei ragazzi fanno under 18, under 20 e serie B. Quello che mi piacerebbe che i ragazzi capissero è che nella pallacanestro senior certe cose, come il senso della responsabilità, collettiva e individuale, deve cambiare ed essere percepita in modo diverso.

Il ricordo più bello con i giocatori attualmente al college?

Con alcuni di loro ho vinto uno scudetto che ha segnato la storia di questo club, ma per come sono fatto io, il ricordo più bello è stato l’abbraccio di sabato all’aeroporto con Amar o quello che avrò con Scott, Mattia o Kristin quando li rincontrerò.

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