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Chris Beard, un Re di umili origini

Autore: Riccardo De Angelis
Data: 3 Mag, 2019

Il terzo più pagato di tutti: Chris Beard ha recentemente rinnovato il suo contratto con Texas Tech e percepirà circa 4.6 milioni di dollari all’anno per i prossimi sei. Solo John Calipari e Mike Krzyzewski guadagnano di più. Due mostri sacri e poi un signore che ha appena quattro stagioni da head coach alle spalle.

Può sembrare una follia ma solo per chi non ha seguito bene o affatto l’ultimo paio d’anni. La scalata di Beard ha infatti dell’inedito per velocità e mezzi coi quali è arrivato al top, con una Elite Eight e una finale di March Madness (persa per un soffio) in back-to-back per un’università che mai prima si era affacciata su certi palcoscenici. A Lubbock hanno quindi deciso di mettersi le mani in tasca e tirare fuori un po’ dei tanti soldini che riempiono le casse della scuola grazie al football marchiato Big 12 (perché alla fine, quando si parla di giri d’affari per i diritti televisivi, è sempre questo lo sport che domina incontrastato negli USA).

Gavetta, cazzimma e idee nuove

«È un vincente, vuole migliorare, vuole vincere contro chiunque gli si pone davanti. Questo è stato il motivo per il quale ho scelto di venire qua, mi ci rivedo tanto nella sua mentalità, in quel che pensa, nel come vive le giornate», ci aveva detto Davide Moretti a proposito del suo allenatore. In Beard, lo spirito d’intuizione che l’ha portato a elaborare uno stile tutto suo è supportato da tantissimo lavoro quotidiano. Ci è stato raccontato che le sue riunioni col coaching staff in vista delle partite possono durare tranquillamente sei ore e inoltre sui social è ormai un’abitudine vedere Mark Adams (figura chiave fra gli assistenti dei Red Raiders) immortalato con computer, carta e penna mentre, a partita finita da un paio d’ore, già comincia a preparare quella successiva. A Texas Tech se vuoi vincere non ti devi fermare mai proprio come lui non si è mai fermato.

In un percorso di successo, in qualsiasi ambito, ci vuole sempre un po’ di fortuna ma certi traguardi non si tagliano per caso. Beard, 46 candeline spente a febbraio, prima di emergere fra i migliori coach del college basket ha dovuto smazzarsi una lunga gavetta fatta di tappe lontanissime dai riflettori, fra junior college, università di Division II e persino una parentesi nella ABA, dove prendeva 300 dollari a partita in un contesto semipro la cui desolazione era ben simboleggiata da un contorno fatto dalle cheerleader più attempate degli Stati Uniti. In mezzo a tutto questo, c’è stata l’esperienza formativa come assistente di Bobby Knight all’ultimo capitolo della sua carriera, proprio a Texas Tech.

È in quegli anni che Lubbock è diventata la casa alla quale non poteva non tornare appena avutane l’occasione e che ha dato una prima svolta alla sua identità di allenatore. Se parliamo di spiriti focosi, il parallelo fra Beard e Knight viene facile. Certo, il primo non ha mai lanciato una sedia in campo ma, nonostante la sua carriera da HC sia ancora agli inizi, l’aneddotica è già piena di episodi gustosi. Il migliore risale a circa un anno e mezzo fa, quando si strappò i legamenti del ginocchio durante una partita in casa di Iowa State, rimanendo a bordo campo fino alla fine e senza nemmeno accennare la cosa in conferenza stampa. «Non volevo che la gente dell’Iowa pensasse che fossi soft», aveva detto qualche giorno dopo. Capito che tipo è?

 

Dal punto di vista tecnico, Beard ha attinto a piene mani dalla motion offense di Knight, padre nobile di questo stile. La cosa interessante con Beard è che, in questo come in altri aspetti, ha saputo e voluto imparare il più possibile declinando però le lezioni apprese secondo le proprie convinzioni, quindi aggiungendo, modificando, innovando. La sua motion infatti include anche blocchi sulla palla e, in generale, appare più ricca e complicata rispetto ai canoni classici: «Ha imparato i principi basilari dell’attacco da Knight: le spaziature, i blocchi, i tagli, la lettura della difesa racconta Gerald Myers, ex allenatore e poi Athletics Director di Texas Tech – Chris probabilmente ha un paio di schemi che usa in mezzo a quell’attacco, ma non è facile da insegnare né da allenare. Un sacco di persone ci hanno provato, senza capire in pieno. Ma lui sì».

E poi difesa, difesa, difesa: per Texas Tech tutto parte dalla propria metà campo. Di certo lo spirito di Knight si sente ma, in quanto a concetti, l’approccio di Beard va al di là, grazie anche alla collaborazione in essere Adams. La sua difesa a uomo basata sul “no middle” (ovvero, per prima cosa, mai lasciare il minimo varco all’attaccante verso il corridoio centrale) è aggressiva, disciplinata e copre il campo come una coperta grazie ai meccanismi coi quali i giocatori vanno in aiuto. Risultato: TT ha chiuso la stagione con un 84.1 di DRtg, il miglior dato di squadra mai rilevato da KenPom. Quello di Beard è uno stile mai davvero visto prima – perlomeno, non esattamente in questi termini – e che scommettiamo finirà per fare scuola molto presto.

Se vinci e fai la rivoluzione, allora vali ogni centesimo di un lauto stipendio.

 

Texas Tech, meteora o nuova blue blood?

Il modo in cui Beard recluta rappresenta un’altra parte dei successi ottenuti fin qui. Ha sicuramente occhio per trovare talento dove altri non lo vedono (Zhaire Smith e Jarrett Culver sono gli esempi più lampanti) e anche in quanto a player development non sembra avere nulla da invidiare a colleghi di alto rango, basti vedere l’evoluzione di Moretti – specie in difesa – nell’arco di due anni passati a Lubbock.

Il Texas è enorme, strapieno di giocatori di talento (quotati o meno) così come di concorrenti da battere in sede di recruiting. Beard viene dalla Georgia ma conosce il Lone Star State come le proprie tasche dopo avervi vissuto e lavorato in maniera quasi del tutto ininterrotta per oltre vent’anni. Possiede la rete di conoscenze necessaria ma il lavoro di reclutmento suo e dello staff si estende praticamente a macchia d’olio, sia in termini geografici che di campionati scrutinati.

Contrariamente a molti altri coach delle high major, sa che i junior college non vanno mai snobbati (Deshawn Corprew viene da quell’ambito e c’è anche Khalid Thomas in arrivo) e che il recruiting internazionale può dare ottimi frutti. Le piste battute da Texas Tech parlano principalmente italiano e francese, col Moro e Russell Tchewa (da Reggio Emilia via Putnam Science) da una parte (oltre alla possibilità rappresentata da Federico Miaschi, cercato però da diverse Power Six), Joshua Mballa e Clarence Nadolny (forse anche Josaphat Bilau) dall’altra, tutti ragazzi già passati per high school americane.

Cosa ancora più importante: i risultati ottenuti stanno allargando sempre di più il raggio d’azione per quanto riguarda i giocatori seriamente corteggiabili. Già la scorsa estate si era notato un cambiamento notevole (pensiamo a Jahmius Ramsey e a Terrence Shannon, che vedremo in campo l’anno prossimo) e adesso, per Beard, è sempre più facile far drizzare le orecchie anche alle reclute più quotate. L’ultimo della lista in ordine di tempo è RJ Hampton, che ha appena deciso di ricollocarsi nella classe 2019 (diventandone uno degli elementi di maggior spicco) e che ha menzionato Texas Tech fra le sue quattro squadre preferite.

Morale della favola: fra laureati e giocatori al Draft, i Red Raiders hanno visto cambiare molti volti ogni anno ma, in maniera sempre più evidente, ci sono le premesse per rimanere ai vertici. Nonostante la portata ingente dell’investimento fatto da Texas Tech per Beard, viene ancora da chiedersi: per quanto tempo rimarrà? Trasformerà il programma in una nuova sangue blu del college basketball o finirà comunque, un giorno, per trasferirsi in lidi ancora più nobili?

Difficile dare risposte ma, al giorno d’oggi, i “per sempre” sono quanto mai azzardati. Una cosa è certa: finché rimane lui, a Lubbock continueranno a divertirsi.

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