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De’Andre Hunter a caccia della vetta

BasketballNcaa - Virginia Cavaliers - De'Andre Hunter
Autore: Riccardo De Angelis
Data: 4 Ott, 2018

Seduto dalla parte sbagliata, per di più in uno dei posti più frustranti. Poco più di sei mesi fa, Virginia ha fatto la storia in negativo come prima testa di serie battuta da una #16 al Torneo Ncaa. De’Andre Hunter era lì ad assistere alla disfatta, seduto a bordo campo con un polso rotto e il cuore in frantumi. Non proprio l’epilogo auspicato né quello preventivato a livello individuale e, men che meno, di squadra. I Cavaliers, ricorderete, avevano dominato l’ACC in lungo e in largo.

Nella pallacanestro, non c’è offseason più lunga di quella Ncaa: per i ragazzi di Virginia, questa dev’essere sembrata interminabile. Coach Tony Bennett l’ha detto e ripetuto in tutte le salse in questi mesi: i suoi smaniano di tornare in campo, cancellare il ricordo di UMBC. Hunter, c’è da scommetterci, è in primissima fila. Se UVA ha chance di scrivere un capitolo finale migliore quest’anno, molto passerà dal ragazzo di Philadelphia, esploso a metà della scorsa stagione dopo aver dovuto assaggiare la sua bella fetta di problemi.

In una misura o in un’altra, difficoltà e delusioni sono il sale della carriera sportiva: quella di Hunter a Charlottesville era iniziata proprio sotto questo segno. «Non mentirò: era piuttosto scosso. Si sentiva tradito e, onestamente, anch’io mi sono sentito un po’ alla stessa maniera». Aaron racconta così la delusione del fratello minore De’Andre dinanzi la notizia dell’annata ai margini che lo aspettava. A Virginia, spendere il primo anno da redshirt è quasi un passaggio d’obbligo: Hunter, però, era proprio convinto di essere buono abbastanza da esserne esentato. Gioventù, voglia di spaccare, talento dalla propria parte e tanta sicurezza di sé: non ci vuole tanto per capire come mai si sentisse deluso.

De’Andre è un tipo che non ama attirare l’attenzione fuori dal campo, è alquanto taciturno («non sai mai dov’è con la testa», dice Jason Williford, assistente di UVA) ma se gli mettete un microfono sotto il naso e chiedete un’opinione, aspettatevi più schiettezza che diplomazia: «Io, Charlie Brown e Tony Carr», questo rispondeva tre anni fa, senza battere ciglio, quando gli si chiedeva chi fossero i migliori della sua annata a Philadelphia e dintorni. Con buona pace di gente affatto malaccio che bazzicava da quelle parti – Quade Green, Lamar Stevens, Jair Bolden.

La sua è una sicurezza acquisita progressivamente e che si poggia su quel che ha dimostrato sul campo negli anni: «Non credo che si rendesse conto di quanto fosse bravo, all’epoca. – racconta il suo ex coach a Friends Central School, Ryan Tozer – Faceva certe cose da freshman: segnava da tutte le mattonelle del campo, infilava jumper dalla media, metteva triple cadendo all’indietro e giocava spalle a canestro».

Il ragazzo da Philly, insomma, arriva a Virginia col vento in poppa ma, per lui, si profila tanto apprendistato: c’è da studiare la Pack Line Defense (per quello, un anno non basta: in pratica lo dice chiunque ci sia passato) e lavorare su un fisico troppo esile per una conference come la ACC. “As he gets stronger and refines his game, the sky’s the limit”, diceva di lui, ai tempi delle superiori, City of Basketball Love, punto di riferimento per il mondo delle high school cittadine. Parole azzeccatissime. Alto 2.01 metri, durante l’ultimo anno di high school pesava appena 88 chili, complice una stagione d’inattività che aveva influito sul suo sviluppo fisico. Sono passati circa due anni da allora: adesso ne pesa 101. Una bella differenza.

I risultati, però, non si vedono subito. Eccetto il career-high contro Monmouth, Hunter fa fatica per tutta la non-conference season: non esprime il suo gioco, il tiro non va e il minutaggio rimane perlopiù contenuto. Poco prima di Natale, suo fratello si sfoga su facebook: “If I could ask Santa for one wish, it’ll be for my brother to leave UVA.” Aaron non è un parente qualsiasi: è quanto De’Andre abbia di più vicino a una figura paterna (Aaron Sr. è deceduto quando aveva solo 7 anni), è quello che l’ha seguito passo per passo durante il recruiting e col quale si confronta sul piano tattico alla vigilia d’ogni partita. L’incidente rientrerà poi velocemente, senza ripercussioni, ma rimane significativo dell’andazzo di quel periodo.

Col debutto in ACC, appare trasformato e la sua pazienza viene ripagata: i minuti aumentano e mostra tutto il suo potenziale da two-way player. In difesa è un mastino e si adatta con semplicità ad assetti e avversari diversi, potendo giocare sia da 3 in un quintetto “classico” che da 4 in un assetto small. In attacco, il tiro inizia finalmente a girare e soprattutto mostra gran capacità di puntare il canestro e un gioco variegato, oltre ad atletismo e abnegazione dispiegati costantemente in tanti modi, dai rimbalzi offensivi agli aiuti. La vittoria in casa dei rivali di Virginia Tech è esemplare: entra nella ripresa, eclissa le guardie avversarie nella propria metà campo e segna tanto in poco tempo (e con percentuali alte). Un brano con alcune variazioni sul tema, ma il risultato tende a essere sempre quello nel prosieguo della stagione.

La prova offerta nella clamorosa vittoria in casa di Duke lo consacra come giocatore di primo piano: un bel pezzo del riconoscimento come miglior Sesto Uomo dell’ACC è probabilmente dovuto a quanto fatto al Cameron. Nel primo tempo, i Blue Devils sono in balia dei Wahoos, portati a spasso dalle loro guardie che, coi loro movimenti lungo il perimetro, aprono spazi ghiotti per i tagli in backdoor (un paio di volte serviti proprio da Hunter). Nella ripresa, Coach K schiera la 2-3 e raddrizza la partita. Almeno finché non si riaffaccia in campo il numero 12 di Virginia. De’Andre prende quel che la difesa avversaria gli concede e lo restituisce con gli interessi. Dal gomito o dalla linea da tre, non importa: quando riceve, crea dal palleggio con intelligenza e scioltezza disarmanti, fra tiri dalla media, slalom a canestro e scarichi per i compagni.

 

Con quel bagaglio tecnico e quei mezzi (ricordiamo anche i 218 cm di wingspan), non puoi passare inosservato in ottica NBA. Diversi mock lo indicavano al primo giro quest’anno, ma Hunter ha deciso di rimanere un altro anno a UVA, quello che presumibilmente sarà l’ultimo prima della candidatura al Draft: «Onestamente, non credo che fossi buono abbastanza per andare in NBA. Penso di essere un bravo giocatore, ma posso sfruttare un altro anno [al college], diventare di gran lunga migliore e poi avere un impatto vero nel mio anno da rookie.»

La testa è insomma tutta rivolta al presente, a una stagione che per i Cavaliers deve far rima con redenzione. C’è una vetta da rincorrere chiamata Final Four: un miraggio dell’Era Bennett e anche l’unico traguardo che può ridimensionare il fondo toccato nello scorso Torneo NCAA. Con le partenze di Devon Hall e Isaiah Wilkins, avere Hunter da sesto uomo è un lusso che Bennett non potrà più permettersi e, viste le poche guardie a disposizione, probabilmente lo vedremo molto più spesso da 3 che da 4.

Virginia avrà una panchina talentuosa (il “nostro” Francesco Badocchi è parte del discorso) ma anche molto inesperta se il transfer Braxton Key dovesse finire per non riceve un waiver per giocare sin da subito. La profondità aiuta tanto in stagione, certo, ma quando si arriva al dunque, a marzo, sono i primi violini a fare tutta la differenza. I titolari sono solidissimi, Ty Jerome e Kyle Guy offrono grandi garanzie come backcourt duo ma i fari saranno puntati in primis proprio su Hunter: è lui che, in definitiva, ci dirà attraverso le sue prestazioni quanto buoni saranno questi ‘Hoos. Non può nascondersi e, del resto, a nessuno pare che voglia farlo.

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