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Cos’è e come funziona il Draft NBA

Autore: Stefano Fontana
Data: 8 Ott, 2019

È un rito che si ripete ogni stagione, il mondo cestistico attende di vedere i giocatori provenienti dai college alle prese con il primo anno di NBA. Il Draft è uno dei momenti più entusiasmanti della pallacanestro mondiale. I migliori talenti del basketball universitario tentano il salto nel mondo dei professionisti. Il procedimento di scelta è regolato da meccanismi complessi e da diverse regole. Da un lato, questo serve a garantire alla NBA l’equilibrio tra le franchigie, che è uno dei suoi marchi di fabbrica (nel tentativo, appunto, di non permettere a poche squadre di monopolizzare tante annate consecutive), dall’altro a facilitare il lavoro di general manager e scout, oltre che a tutelare gli stessi giocatori.

Zion Williamson

Zion Williamson, prima scelta assoluta al draft 2019.

Lo svolgimento in realtà appare abbastanza semplice: nella notte del Draft, nel mese di giugno, 60 giocatori provenienti dal college o da campionati stranieri vengono selezionati a turno dalle franchigie NBA. L’ordine di scelta (pick, in gergo) viene definito in precedenza dalla lottery. Sostanzialmente, le prime 4 chiamate vengono assegnate alle squadre che non hanno partecipato ai playoff l’anno precedente, attraverso un sorteggio nel quale le peggiori squadre della regular season hanno le maggiori probabilità di avere scelte alte.

Questo, appunto, per permettere alle squadre con i roster teoricamente peggiori di selezionare i giovani più promettenti e avere l’occasione di riprendersi, alzando dunque il livello medio della competizione. Dalla quinta scelta in poi, le chiamate procedono secondo il record della regular season: dalla peggiore alla migliore, fino ad arrivare alla 60° pick.

DraftPercentage

Le percentuali riservate a ciascuna squadra, per ciascuna posizione, in vista del Draft NBA.

A partire dagli anni ‘60 sino al 2006, tutti i giocatori statunitensi potevano rendersi eleggibili per il draft appena compiuti i 18 anni. In seguito a diverse polemiche e alle pressioni dell’allora commissioner, David Stern, la soglia è stata poi alzata a 19 anni, ponendo fine al fenomeno degli high-school draftees, giocatori che tentavano il salto in NBA direttamente dalla scuola superiore. Dovendo di fatto far passare un anno prima di diventare 19enni e quindi poter essere scelti al Draft, moltissimi giocatori hanno poi scelto di stare un solo anno in Ncaa. Sono stati chiamati one-and-done, ossia atleti che spesso iniziano la stagione già con l’obiettivo dichiarato di approdare in NBA l’anno successivo.

Non appena un giocatore comunica ufficialmente la propria eleggibilità, viene inserito nella cosiddetta entry list, compilata ad aprile. Fino al 2016 far parte di quella lista rappresentava un viaggio di sola andata. Una volta dichiarato, infatti, un giocatore non poteva tornare al college per nessun motivo. Oggi, invece, è possibile revocare la propria candidatura fino a 10 giorni dopo l’annuale Combine (fine maggio), che permette ai talenti di essere visionati da dirigenti, staff e scout delle franchigie NBA. Questo, ovviamente, a patto che il giocatore non abbia assunto un agente: una condizione che impedisce a qualsiasi giovane di tornare in NCAA.

Per molti giocatori, quello della Combine è il momento per tastare il terreno (gli americani usano l’espressione “test the waters”), ovvero cercare di capire, anche tramite workout con le singole franchigie e colloqui con gli allenatori, quali concrete possibilità ci sono di essere scelti e/o di avere futuro in NBA. Quando i riscontri sono positivi, spesso l’atleta in questione rimane disponibile per il Draft. In caso contrario, cancella il suo nome dalla entry list e fa ritorno al college

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