La Grissin Bon se l’è ripreso, facendogli firmare un contratto triennale. E così Federico Mussini è tornato a casa, a Reggio Emilia, lasciando la St John’s University e New York, la Big East e Chris Mullin dopo due anni. Ce li siamo fatti raccontare in una lunga intervista, che pubblicheremo in due parti, nella quale il playmaker reggiano ci spiega come è cambiato, non solo come giocatore.
Hai 19 anni, arrivi a New York e vai a vivere in una struttura che in Italia semplicemente non esiste. Come ti sei trovato?
E’ sicuramente molto diverso, da noi purtroppo non ci sono quei campus in cui hai tutto all’interno, da campi di gioco per qualsiasi sport, alla mensa alle stanze per gli studenti. E’ una piccola città di soli ragazzi e quindi è veramente bellissimo stare in un ambiente del genere. Mi sono divertito molto e mi sono sempre trovato davvero bene.
Una città meravigliosa, un campus con tutte le strutture possibili e immaginabili, il Madison Square Garden come campo di casa per alcune partite. Tutto bene, o ci sono stati anche problemi?
Pensavo ci sarebbero stati più problemi, magari dovuti alla lingua, e invece mi sono trovato a mio agio sin da subito, anche grazie alla presenza di Amar Alibegovic (figlio di Teo, italo-bosniaco prodotto della Stella Azzurra) e di Luca Virgilio (assistant coach di Mullin) nello staff. Gli aspetti negativi sono stati legati solo ai risultati di squadra perché ovviamente non abbiamo ottenuto quello che ci aspettavamo.
I Red Storm sono infatti una squadra tutta nuova, composta da ragazzi europei, africani e americani, con un coach dal grande passato da giocatore Nba ma nessuna esperienza in Ncaa e, soprattutto, nessuna esperienza da allenatore. Prevedibile che non sarebbe stato facile.
Non è stato facile, e ovviamente sapevamo che non sarebbe stato un anno facile. Tutti ci aspettavamo che ci sarebbero state difficoltà. Non mi aspettavo però che ci sarebbero state così tante difficoltà.
Primo exhibition game, giocate contro St Thomas Aquinas, sconosciuto college di Division II. E ne prendete 32 in casa.
Me lo ricordo bene, eravamo tutti molto sicuri e fiduciosi sulle nostre capacità, e quell’inizio di stagione ci ha fatto capire che ci saremmo dovuti impegnare tanto perché nessuno ci avrebbe regalato nulla. E che niente era scontato, nemmeno contro una squadra di Division II. E infatti le prime partite sono poi andate bene.
7-3 il record dell’inizio della stagione, fino alla vittoria contro Syracuse al Madison Square Garden. E’ stata quella la tua partita più bella?
Sicuramente sì, è stato anche il punto più alto della stagione della squadra, e poi c’è stato un calo davvero inspiegabile, con una serie negativa davvero lunga. Non so bene cosa sia successo, ovviamente il livello si è alzato con l’inizio della Big East, ma abbiamo perso anche contro gente di ultima fascia e quindi c’è stato qualcosa di mentale che non ha funzionato.
Sono arrivate 16 sconfitte in fila e una sola vittoria nelle 22 restanti partite della stagione, da dicembre in poi. Tutto dopo aver battuto Syracuse: come è possibile?
Davvero non lo so, tra l’altro Syracuse è andata alle Final 4, non era una squadra qualsiasi. E’ veramente difficile da spiegare, nessuno se lo sarebbe aspettato anche perché dopo una vittoria del genere ci si sarebbe aspettato che fossimo ancora più carichi. E invece c’è stato un calo impressionante da cui non siamo praticamente più usciti.
E’ stato quindi un anno difficile e con poche vittorie sul campo. A fine stagione hai pensato di andartene?
No, ero convinto di restare, perché sapevo che le cose sarebbero andate meglio. Una mentalità vincente e un gruppo vincente non si costruisce così, da un momento all’altro. Ci vuole tempo, ci vuole fiducia, e quindi ero convinto di restare lì un altro anno e giocarmela.
Inizia il secondo anno e la squadra cambia volto: arrivano due guardie realizzatrici come Marcus LoVett e Shamorie Ponds che danno a St John’s una dimensione più Nba style, come peraltro voluto da Mullin. Cosa è cambiato per te?
Sono stato spostato a guardia e questo da un certo punto di vista mi ha aiutato a prendermi tiri più aperti, e infatti le mie percentuali sono migliorate (dal 34% al 41% complessivo, dal 30.4% al 42.7% da 3), ma nello stesso tempo ho avuto meno la palla in mano, una cosa insolita per me visto che fin da piccolo ho sempre giocato playmaker. E’ stato un cambio di posizione che ha avuto aspetti positivi e negativi, ma penso che il mio ruolo naturale sia il playmaker, quindi ho giocato in un ruolo che non era il mio.
In quali aspetti del gioco sei migliorato nel secondo anno?
Sono migliorato in difesa, anche grazie al potenziamento fisico, quindi tenevo meglio i contatti. Nel secondo anno giocando solo da guardia, ho sfruttato meno il pick and roll, gestivo meno il gioco, anche perchè di fatto nel primo anno ero l’unico play, e quindi ho imparato a sfruttare di più le situazioni di vantaggio create dagli altri, giocando sugli scarichi e cose così.
La stagione è andata meglio (14-19 il record), ma sempre con alti e bassi: avete vinto con squadre da torneo come Providence e Butler e perso con college molto più deboli come LIU Brooklyn e Delaware State. Nel complesso, si è vista ancora poco la mano di Chris Mullin, ce lo descrivi come coach?
All’inizio è difficile per tutti, quando uno allena per la prima volta non è mai facile. Anche nel secondo anno, la squadra era molto giovane, e anche l’inesperienza rende una squadra più difficile da gestire per tanti motivi. Voleva che giocassimo veloci, sostanzialmente liberi: ovviamente avevamo degli schemi ma non si preoccupava troppo dell’attacco, perché sapeva che talento e punti nelle mani ne avevamo. A lui importava che ci impegnassimo in difesa perché da lì partiva tutto, mentre in attacco ognuno aveva la libertà di fare le sue scelte che poi valutavamo insieme, e lui ci diceva quali erano giuste e quali sbagliate. Magari nell’immediato non ha dato risultati, ma è un lavoro utile per migliorare ogni singolo giocatore. Non sei sempre sotto pressione con un allenatore che ti comanda e ti dice cosa fare come un soldatino: sei tu che, giocando, capisci meglio in quale situazione fare una certa cosa.
Ci sono state critiche a Mullin e anche recentemente grandi media come Espn hanno definito St John’s un posto difficile dove allenare. Avete sentito, lui e voi, la pressione di dover riportare in alto un programma che da anni non vince?
Forse un po’ sì, Mullin si è preso una grossa responsabilità. Hanno voluto ripartire da zero ed era normale che ci fossero delle difficoltà perchè non ricostruisci un programma in una stagione. Le critiche ci sono a tutti i livelli, devi conviverci e ci vuole tempo per cambiare cultura e per cambiare un programma.
Qual è il giocatore più forte che hai incontrato in questi due anni?
Kris Dunn, fisicamente fortissimo, abbastanza alto, esplosivo, braccia lunghissime. L’anno scorso ha fatto una stagione pazzesca e infatti è finito nelle prime 5 scelte.
Hai giocato due volte anche contro Ryan Arcidiacono, campione Ncaa appena ingaggiato da Caserta. Come ti è parso?
A me piace molto come giocatore, è uno sempre in controllo, intelligente, con un gran tiro e anche forte fisicamente. Poi a Villanova era in un sistema perfetto per lui, dove poteva rendere al meglio e ha fatto una stagione pazzesca.
Al Nike Hoop del 2015 eri in squadra con Ben Simmons, è il più forte compagno che hai avuto?
Sì, direi di sì. Al Nike Hoop ce n’erano tanti che ora sono nell’Nba, ma lui ha le caratteristiche per diventare una stella. Sono molto curioso di vedere cosa farà quest’anno.
Quale invece il tuo Mvp di questa stagione?
A me piace molto De’Aaron Fox, penso possa diventare una stella.
“Ci piaceva molto ma ha fatto un’altra scelta”, ci ha detto Riccardo Fois, assistant coach di Gonzaga. Qualche rimpianto dopo aver visto i Bulldogs alle F4?
Sicuramente vedere Gonzaga in finale è stata una cosa che mi ha fatto pensare molto. E’ comunque qualcosa di cui andare orgogliosi perchè, se un’università così forte come Gonzaga ti ha mostrato così tanto interesse, comunque è una bella cosa. Però ovviamente non si può ragionarci sopra dopo due anni: al momento della scelta, ho fatto tutte le mie valutazioni, ho pensato che a St John’s avrei potuto avere spazio e migliorare di più, e questo era il mio obiettivo principale. Sapevo che Gonzaga è un’università super, che ha un record vincente e va sempre al torneo, ma come miglioramento individuale ho pensato che New York fosse il posto migliore. Alla fine erano rimaste queste due e ho scelto St John’s.
Chiudiamo questa prima parte con il tuo bilancio di due anni di vita americana.
Mi sono divertito molto e mi sono trovato bene. New York per me è una città stupenda e quindi è stato sicuramente emozionante. A volte mi manca, non è una cosa da tutti passare due anni a New York. Sono sicuramente due anni che non scorderò mai.
MERCOLEDI’ LA SECONDA PARTE DELL’INTERVISTA