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Da Villanova a Duke, le delusioni

Autore: Riccardo De Angelis
Data: 29 Mar, 2017

 Villanova e il repeat sbagliato

Tutti si chiedevano se Villanova sarebbe stata in grado di bissare il successo della scorsa stagione. Ebbene, i Wildcats sono riusciti nell’incredibile repeat, anche se non esattamente quello da loro sperato: per la terza volta negli ultimi quattro anni, infatti, la squadra di Philadelphia ha abbandonato il torneo dopo appena due partite disputate (la seconda volta da seed numero 1) lasciando l’amaro in bocca ai suoi tifosi (ma niente flautiste in lacrime stavolta, grazie al cielo).

Coach Jay Wright aveva indicato Wisconsin come la miglior numero 8 del tabellone: i fatti hanno dimostrato che il coach di Nova avesse ragione nel temere i Badgers, probabilmente la squadra più colpevolmente sottovalutata dal comitato del Selection Sunday. Oltre ai meriti indubbi degli avversari, Villanova ha pagato la giornata storta di alcuni suoi interpreti (Kris Jenkins su tutti col suo 2/9 al tiro) ed errori di varia natura sorti qua e là nel corso dell’incontro: Jenkins che, a un certo punto, sembra più concentrato nel pescare il fallo sul jumper che a metterla dentro; Mikal Bridges con una difesa rivedibile su Nigel Hayes in occasione del canestro clutch di quest’ultimo; il pur ottimo Donte DiVincenzo che sbaglia un libero importante e poi buca completamente un tentativo d’aiuto (sconsigliabile) nella già citata azione del lungo avversario.

Il momento più emblematico, però, è forse proprio quello che ha deciso la partita: Villanova ha l’ultimo possesso, Josh Hart punta il canestro, viene tenuto bene da Ethan Happ e, prima di poter tentare il tiro, si fa strappare il pallone da Vitto Brown. Hart sembra non considerare affatto il numero 30, come se non fosse un pericolo, come se, dopo un anno intero passato a guadagnare liberi, andare in lunetta al termine di quell’azione fosse un atto dovuto, inevitabile, che non richiedesse alcun accorgimento in più.

Sono solo alcuni esempi che possono essere riassunti in poche parole come “superficialità“, “passività” e “disattenzione“. Il vittorioso torneo della Big East ci aveva mostrato una squadra in pieno controllo; l’incontro con Wisconsin, invece, un collettivo forse appagato, probabilmente troppo sicuro di sé: tutto il contrario del mantra “Attitude” forgiato da Wright e che, seguito alla perfezione un anno fa, aveva portato a ben altro epilogo.

 

Duke non si sporca le mani

Una stagione cominciata sotto cattivi auspici – gli infortuni di Jayson Tatum e Harry Giles – proseguita fra balbettii vari e infine schiantatasi al suolo proprio quando sembrava che potesse spiccare il volo: Duke si era presentata al Torneo Ncaa forte del bel successo ottenuto nella ACC (prima squadra a conquistare il titolo vincendo quattro partite in quattro giorni) ma è dovuta uscire di scena già al secondo turno, surclassata da South Carolina, ovvero la grande sorpresa di questa March Madness. Dieci punti di vantaggio a 18 minuti dal termine mandati in fumo dai 65 subiti nella ripresa: i Blue Devils sono rimasti in bambola davanti alla giornata di grazia dei Gamecocks nella metà campo offensiva. Il fortunato allineamento degli astri di cui hanno goduto questi underdog non basterebbe a spiegare la débâcle di Coach K, alle prese con una squadra mal organizzata in difesa, poco propensa a lottare, mentalmente debole e, anche per questo, troppo aggrappata alla leadership di Luke Kennard – unica vera nota positiva della stagione – sparito anche lui, inaspettatamente, proprio sul più bello. Insomma, un’annata che è stata il miglior spot possibile per i detrattori che vedono in Duke nient’altro che una squadra di colletti bianchi.

 

Louisville la pasticciona

Come nel caso di Duke, anche con Louisville siamo in presenza d’una numero 2 uscita al secondo turno per mano d’una 7 dopo aver buttato via un buon margine di vantaggio accumulato nel primo tempo (+9). La prestazione magica di Moritz Wagner (26 punti sbagliando pochissimo) ha avuto sicuramente il suo peso e non era facilmente preventivabile (appena 14 minuti in campo nel match precedente) né semplicissima da arginare per via della gran capacità del tedesco nel mettere palla a terra, caratteristica assai indigesta per i lunghi dei Cardinals. Eppure non si può dire che coach Pitino e i suoi siano incolpevoli della rimonta subita nel secondo tempo, la quale ha messo a nudo tutte le debolezze di Louisville già ravvisate durante la stagione: squadra non fra le più esperte, poco cinica, con talento individuale abbondante ma grezzo, espresso solo in parte, pronto ad accendersi e spegnersi di continuo tra un match e l’altro o all’interno dello stesso e, infine, il cui potenziale difensivo è frustrato da cattive scelte che spesso hanno riempito Louisville di falli in abbondanza. Rimandati all’anno prossimo, con un anno in più d’esperienza e alcune sconfitte di cui rifarsi, anche se senza Donovan Mitchell le cose non saranno semplicissime.

 

Florida State asfaltata dall’organizzazione di Xavier

Xavier, da seed numero 11, è riuscita ad andare lontano grazie a Trevor Bluiett e una varietà di difese a zona che ha sparigliato le carte in suo favore. Florida State, che si presentava al Torneo da numero 3, è stata la squadra che ha fatto il tonfo più rumoroso incontrandoli: un -25 senza appello, frutto, sì, di un’incredibile giornata nel tiro da fuori dei Musketeers (11/17) ma anche dell’incapacità dei Seminoles di venire a capo della difesa avversaria con un minimo di costrutto e di sfruttare la superiorità atletica e fisica per proteggere l’area, punto mostratosi debolissimo nell’incontro. Talento dei singoli in abbondanza, disciplina e QI cestistico spesso latitante: questo il mix letale e, tutto sommato, inevitabile per una squadra composta in parte considerevole da freshmen e sophomore.

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