Se è vero che la vita è un viaggio, la storia di Mangok Mathiang ne è la perfetta incarnazione. Fuggito dal Sudan in piena guerra civile, è arrivato in Australia con mamma e fratello lasciando però indietro il padre. Un percorso duro e complicato, identico a quello di un altro Cardinal, Deng Adel. Ha scoperto il basket a 16 anni ma, grazie al duro lavoro e alla grande caparbietà, si è ritagliato subito un posto nel basket statunitense. Pur non potendo giocare per le regole Ncaa, nel 2013 ha fatto parte del gruppo di Louisville che ha vinto il Titolo NCAA e ha vissuto da vicino tutte le indagini FBI che hanno colpito il programma e Rick Pitino. Nella breve parentesi in NBA, ha vestito la maglia degli Hornets e si è fatto le ossa in G-League che definisce come un’ “arena”.
E dato che, come afferma lui, “nulla accade per caso”, quest’anno ha trovato a Cremona un ambiente che gli si addice per carisma e per ambizioni. Nella nostra presentazione di inizio stagione avevamo parlato delle sue doti fisiche e dei suoi margini di miglioramento, ma ora è tempo di scoprire l’intera e incredibile storia del centro della Vanoli che nel rispondere alle nostre domande, non si è certo risparmiato in quanto a dettagli e aneddoti.
Una nuova vita in Australia
Non ricordo molto di quel viaggio: sono fuggito nella notte con mia madre e mio fratello lasciando indietro mio padre. Il Sudan e l’Australia sono due Paesi molto diversi e una volta arrivato là, ho dovuto imparare anche una lingua totalmente nuova per me. Non nascondo che inizialmente è stato difficile, ma la cosa bella dei bambini è che si adattano in fretta. Inoltre, io avevo dalla mia parte lo sport che mi ha aiutato ad integrarmi meglio. Senza contare il mio spirito competitivo che ho sempre avuto sin da piccolo e che mi ha sempre portato a voler dare il meglio di me stesso: volevo emergere a tutti i costi e ciò mi ha aiutato a superare le difficoltà iniziali.
Lo sport: un mezzo di integrazione
All’epoca giocavo a calcio presso l’Emmannuel College: era divertente e riuscivo anche bene. Questo sport è stata per me una vera ancora di salvezza all’inizio, dato che mi ha permesso di fare molti amici e di forgiare il mio spirito: in partita o negli allenamenti volevo essere sempre al meglio e migliorarmi sempre. Non avrei potuto chiedere di meglio per iniziare la mia carriera sportiva e la mia nuova vita.
Non è mai troppo tardi per iniziare a giocare!
Poi all’età di 16 anni, la svolta. In realtà non c’è una vera e propria ragione che mi ha fatto scegliere il basket e abbandonare il calcio. Si è trattato piuttosto di una serie di eventi e di sensazioni. Quando tornavo dagli allenamenti o dalle partite, ero sempre ricoperto di lividi, di abrasioni o escoriazioni. Mia madre un giorno ha detto: “Basta, non voglio più vederti in questo stato per uno sport”. Mi ha così chiesto di provare il basket, sport che praticavano sia mio fratello che i miei cugini. Così ho iniziato.
L’orgoglio di un fratello
Naturalmente iniziare uno sport a 16 anni non è il massimo! I primi allenamenti non sapevo dove mettere le mani e, neanche a dirlo, ero il peggiore della squadra. E qui entra di nuovo in gioco il mio spirito competitivo. Non accettavo di essere l’ultimo ad essere scelto quando giocavamo e neppure di essere considerato l’anello debole della squadra. Così ho iniziato ad allenarmi duramente in palestra e nei campetti del mio quartiere. Lì tutti giocavano a basket, e quindi tutte le volte che mi sentivo dire “non sai giocare”, io mi impegnavo sempre di più. Miglioravo giorno dopo giorno e alla fine il duro lavoro ha ripagato tutti gli sforzi. Il ricordo più bello di quei primi anni è senza alcun dubbio la prima schiacciata che sono riuscito a fare in partita. In quel momento ho guardato mio fratello che diceva orgoglioso: “Quello è il mio fratellino!”.
Un piccolo passo verso la NBA
Sapevo che volevo arrivare in NBA: non sapevo il tempo che ci sarebbe voluto, ma avevo chiaro quell’obiettivo. E per arrivare in NBA, ero consapevole che il primo passo doveva essere quello di andare negli States. E così ho fatto. Nonostante la presenza massiccia di giocatori stranieri nell’high school, l’impatto con il basket americano è stato davvero duro. Un conto infatti è guardarlo in TV – e già lì ti rendi conto quanto sia fisico e veloce – ma un altro è trovarsi in campo. Sapevo che dovevo adeguarmi in fretta, se volevo avere una possibilità e quindi ci ho messo tutto l’impegno possibile. Più mi guardavo indietro e più mi rendevo conto della strada che avevo fatto, più mi dicevo che dovevo lavorare di più per raggiungere il mio sogno.
Nulla capita senza una ragione, neppure la scelta di un college
Quando ero in Florida (presso la IMG Academy), guardavamo spesso le partite delle squadre NCAA e tra le mie preferite, indovinate? C’era Louisville. Ricordo ancora il match tra i Cardinals e Kentucky, dove giocava anche Anthony Davis contro il quale avevo giocato varie volte ai tempi dell’high school in Illinois. Dopo aver visto quella partita non avevo più alcun dubbio: volevo diventare uno dei Cardinals. Avevo iniziato a fare le mie ricerche quando appena due mesi dopo ho ricevuto una chiamata da Louisville. Non ci potevo credere! Sono andato a vedere il campus e ho anche fatto altre visite ufficiali negli altri atenei, ma in cuor mio avevo già preso la mia decisione.
Coach Pitino: il coach giusto nel giusto college
Fin dal mio primo incontro con coach Pitino e con il suo staff avevo capito che Louisville era l’ambiente adatto a me: volevano giocatori competitivi e pronti a dare il 100%. Ero il loro uomo. Su Coach P c’è poco da dire: è un grande! Non a caso è stato inserito nella Hall of Fame per i suoi risultati. Era il giusto allenatore per me, come io ero il giusto giocatore per lui: coach P è un uomo umile che lavora molto e io sono uno che non ha paura di mettersi alla prova e di lavorare duro. Inoltre, è un allenatore che punta sempre in alto, alla vittoria e io sono proprio come lui: entrambi vogliamo emergere. É stato fondamentale nel mio percorso al college e nella mia carriera: mi ha spinto a migliorarmi giorno dopo giorno sia come persona che come giocatore. Non potrei mai ringraziarlo abbastanza per ciò che ha fatto per me.
Un titolo vinto fuori dal campo
Il primo anno per ragioni legate alle regole NCAA non ho potuto giocare. Ma come dico io, tutto accade per una ragione. L’avere in squadra leader carismatici come Hancock, Silva e Smith era di grande ispirazione. Così anche se non potevo giocare, volevo sempre dare il mio contributo in allenamento per permettere a loro di migliorare e dare poi il massimo in partita. Questo ruolo mi ha aiutato a sopportare i tanti mesi lontano dal basket giocato ed è per questo che quel titolo lo sento davvero anche mio.
Le indagini FBI
Quando sono iniziate le indagini dell’FBI non è stato un bel momento! Solo noi sappiamo il lavoro che c’è dietro un Titolo, i sacrifici di una stagione e quello che ognuno di noi ha messo per raggiungere il risultato. Vedere i nostri risultati, i sacrifici, le vittorie, il percorso fatto insieme mandato all’aria in quel modo è stato molto doloroso, non lo nego, anche perché l’inchiesta era su faccende che nulla avevano a che fare con le vittorie ottenute. Quindi, anche se ci hanno revocato il titolo del 2013, ciò non potrà mai cancellare lo storico risultato ottenuto dal nostro gruppo e nessuno ci potrà mai togliere effettivamente quello che abbiamo conquistato sul campo.
Non tutti gli infortuni vengono per nuocere
All’inizio mi sono detto: “è uno scherzo?”. Avevo fatto tanti sacrifici e arrivava un infortunio proprio nell’anno più importante. In testa avevo solo una cosa: tornare in campo. Ci sono stati momenti in cui lo sconforto aveva la meglio, ma sono durati poco anche perché ero capitano della squadra e avevo dei doveri nei confronti dei miei compagni. E poi avevo anche la scuola di cui occuparmi. Ho cercato di capire su cosa lavorare in quei mesi e come sempre nella mia vita mi ci sono dedicato al 100%. Pensavo che quell’infortunio faceva parte del mio percorso come giocatore e come tale doveva essere affrontato e preso. Alla fine quella stagione non è poi andata neppure male ( 7.8 punti di media e 6 rimbalzi in 33 partite).
La Summer League: il punto di svolta
Proprio alla luce di quei risultati ho deciso di provare la strada del draft: mi sentivo pronto per quel salto. Anche se non mi hanno preso subito, non ho mai pensato “non ce la posso fare”. Non fa parte di me avere dei pensieri simili. Anzi, quel primo “no” è stato un invito ad impegnarmi anche di più. La Summer League era parte del mio percorso per la NBA. Ne ero consapevole e quindi ho dato tutto me stesso durante le partite e mi sono anche divertito. E ancora una volta, il lavoro duro mi ha ripagato. Il contratto con gli Hornets arrivato subito dopo è stato il risultato del mio impegno durante l’estate. Arrivare in NBA non è facile, ne ero consapevole all’epoca e lo sono tutt’ora; l’impegno è fondamentale per raggiungere degli obiettivi così grandi, ma allo stesso tempo bisogna credere in se stessi. Io so che posso arrivare in NBA e metterò ogni mio sforzo in questo progetto.
Un sogno chiamato NBA
Firmare il contratto con gli Hornets è stato un sollievo. Era il mio obiettivo e l’avevo raggiunto. Ho chiamato subito mia madre per dirle quello che era appena successo e in quel momento mi è passata in mente tutta la strada che avevo fatto dal Sudan per arrivare fino a lì. Pochi ci credevano e invece ce l’avevo fatta. Non è facile descrivere tutte le emozioni che ho provato in quel momento. Ho avuto modo di apprendere tante cose che mi saranno utili per il futuro e che sfrutterò al massimo per poter entrare nella NBA.
Un fratello di nome Dwight
Potrei elencare tutti i giocatori degli Hornets senza contare i preziosi consigli di coach Cliffords e di un certo Michael Jordan (proprietario degli Hornets). In quei mesi, due grandi punti di riferimento per me sono stati sicuramente Dwight Howard e Marvin Williams. Dwight è stato come un fratello maggiore che mi ha aiutato a compiere quel primo passo nella NBA e che mi ha insegnato tanto sin dal primo momento. Ma la lista potrebbe andare avanti all’infinito. Sapevo che non avrei avuto molti minuti, ma ero felice di poter misurarmi con i giocatori della massima serie del basket.
Nell’arena della G-league
Ho fatto poi un po’ la spola tra gli Hornets e la squadra di G-League di Charlotte. La parola che meglio definisce la G-League è “arena”. Tutti vogliono emergere e riuscire a strappare un contratto nella NBA. Persino gli allenatori e i membri dello staff. Quindi è un ambiente molto competitivo nel quale io stavo benissimo. La parte negativa era quella legata al confort. Arrivando dalla NBA, mi ero abituato troppo bene.
Un abbraccio lungo una vita
È stato un momento molto commovente: erano più di dieci anni che non vedevo mio padre. Non ci sono davvero parole per descrivere quell’incontro (e infatti la voce di Mangok vacilla un po’ nel raccontare questa parte della sua storia). Ho fatto fatica a dire tutto ciò che provavo quando l’ho riabbracciato. Per quanto ha potuto, ha sempre seguito la mia carriera anche se non sa molto del basket. La cosa che più mi ha colpito è stato il fatto che era orgoglioso di me e della persona che ero diventato. È stato un momento molto intenso che mi ha aiutato anche ad affrontare questa stagione con uno spirito rinnovato e più determinato ancora. È sicuramente una storia che racconterò ai miei figli e che porterò sempre nel mio cuore.
Occhi sul presente, ma con il cuore verso il futuro
Per me si tratta ancora di un percorso, un viaggio ancora lungo e pieno di duro lavoro. Ogni passo che ho preso, che sto prendendo e che prenderò sarà sempre nell’ottica del mio bene futuro, sia o non sia la NBA. Come Coach P, anche Sacchetti mi sta spingendo ogni giorno a migliorarmi e a lottare per il mio obiettivo. Esattamente quello di cui ho bisogno.
Il Trash Talking: il super potere di Mangok
Questa mia loquacità in campo è nata in Australia. Vivevo in un quartiere difficile e quindi ho dovuto imparare a difendermi verbalmente mentre giocavo. Ormai è diventato parte del mio gioco e del mio essere giocatore. Quando sono in campo, esce fuori tutto il mio essere. E io sono così: amo parlare, sono esuberante e mi porto dietro tutte le esperienze fatte in passato. È una sorta di super potere per me, dato che il parlare in campo mi rende più sicuro nei miei mezzi. E poi ammettiamolo…il trash talking è davvero divertente e rende il gioco più frizzante! Non tutti gli avversari lo apprezzano naturalmente, dato che comunque tende a distrarli e a renderli più nervosi. I miei compagni di squadra invece lo adorano! Il problema è proprio che spesso, se parlo in inglese non mi capiscono. Quindi sto imparando a farlo anche in italiano (aggiunge ridendo).
I pronostici per la March Madness
Seguo ancora da vicino la NCAA e naturalmente i Cardinals. Hanno un nuovo coach e, anche se l’intero programma è stato rivoluzionato dopo le indagini, sono sicuro che riusciranno a ricreare qualcosa di grande. Sono partiti bene. Ho visto anche il match tra Louisville e Marquette lo scorso 24 novembre. È stata una bella gara tirata fino all’ultimo. Mi piace molto Ryan McMahon, un giocatore dalle grandi potenzialità offensive. Sono sicuro che questi ragazzi potranno dire la loro in questa stagione. Tra le favorite alla vittoria finale vedo una tra Duke, Kansas o Gonzaga. Ma come sapete meglio di me…il basket NCAA è davvero imprevedibile e ci saranno sicuramente sorprese.