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Week 18, South Carolina e LSU finiscono in rissa

Autore: Riccardo De Angelis
Data: 11 Mar, 2024

Titoli agguantati, biglietti strappati e prestazioni clamorose: il secondo weekend di marzo ha regalato di tutto. Anche una rissa con pochi paragoni nella finale femminile di SEC fra South Carolina e LSU. Le pagelle della Week 18.

 

Cormac Ryan (North Carolina). Quando ha la mano calda, è finita per tutti. 31 punti in faccia ai Cameron Crazies per togliere la soddisfazione a Duke di condividere, almeno, il titolo dell’ACC, vinto dai Tar Heels in solitaria per la prima volta dopo sette anni. North Carolina è più forte e più esperta dei rivali e tanto passa da un super senior come Ryan che, in una delle notti più importanti dell’anno, non ha sbagliato niente: 8/12 dal campo, 6/8 da tre, 9/10 ai liberi per un career-high messo al momento giusto.

Houston. Era scesa in campo già forte del titolo di Big 12 vinto e in solitaria, grazie alla sconfitta di Iowa State contro Kansas State. Ecco i Cougars ci hanno tenuto a mandare un messaggio a Kansas: una ripassata in pieno stile Houston, fatta di una difesa devastante che ha tenuto i Jayhawks al minimo storico in conference (46 punti) e un attacco capace di dominare l’area come poche altre squadre sanno fare. La partita era di fatto chiusa dopo otto minuti. Una contender per il titolo fatta e finita, stavolta temprata nelle arene roventi della Big 12.

 

Darius Brown (Utah State). Giusto che sia andata così: l’assist lo consegna Great Osobor e il tiro della vittoria lo mette Darius Brown, i due ragazzi che hanno seguito coach Danny Sprinkle dalla piccola Montana State per regalare agli Aggies una stagione memorabile. Battendo New Mexico, si sono presi il titolo di regular season della Mountain West, che a USU nessuno mai era riuscito a conquistare in solitaria. Brown è stato protagonista costante quest’anno e ha un clutch gene mica da niente. Questo qui finisce dritto dritto nel montaggio 2024 di One Shining Moment, scommettiamo?

Tucker DeVries (Drake). Per la seconda volta consecutiva lascia il parquet della Arch Madness da migliore in campo e con un biglietto per il Torneo NCAA in tasca. Nella partita di rimonte e controsorpassi con Indiana State, alla fine è lui ad avere l’ultima parola con 27 punti, 7 rimbalzi e 5 assist al servizio della sua Drake e di papà Darian in panchina. Un vincente fatto e finito: l’ala junior ha l’occasione di fare qualcosa di speciale per i Bulldogs e ribadire il suo valore come prospetto da Draft sul palco più importante del college basketball.

 

Jalen Blackmon (Stetson). Scorer micidiale per tutto l’anno (21.5 di media e quattro trentelli), ha deciso di sfoderare un career-high da 43 punti per un’occasione speciale, ovvero la finale dell’ASUN che spedisce gli Hatters al Torneo NCAA per la prima volta nella loro storia. E pensare che due anni fa a GCU non vedeva il campo. In semifinale aveva fatto un passetto indietro (12 punti) e lasciato il palco al suo compare di backcourt, il belga Stephan Swenson (29 punti e game-winner in sorpasso). Che siano da allarme-upset al primo turno?

Szymon Zapala (Longwood). Il lato bello del transfer portal. Aveva passato tre anni a fare la muffa a Utah State, così ha deciso di trasferirsi, trovando la fiducia di coach Griff Aldrich e dicendo addio ai suoi 5 minuti scarsi di media. Sì, in campo non può starci chissà quanto a lungo, ma quando c’è si fa sentire: 9.7 punti e 5.6 rimbalzi in 16.5 minuti quest’anno, scoprendosi eroe di giornata nell’upset di semifinale della Big South contro la padrona di casa High Point. 17 punti e un canestro decisivo nell’OT, poi altri 17 nella finale stravinta con UNC Asheville. Longwood va a ballare e ringrazia sentitamente il sevenfooter polacco.

 

Drew Pember (UNC Asheville). Brava Longwood, però spiace privarci di un possibile eroe di March Madness come lui. Pember chiude una carriera da leggenda mid-major con un po’ di amaro in bocca, messo in gabbia insieme alla sua squadra nella finalissima, ma comunque lasciando impressa nella memoria una prestazione fenomenale in semifinale: 30 punti, 13 rimbalzi e 10 assist (con una sola persa) contro Gardner-Webb, unica tripla doppia accompagnata da trentello in Division I quest’anno e la prima registrata a marzo in vent’anni.

Jake Diebler (Ohio State). Numeri impietosi per Chris Holtmann: record 4-10 e nemmeno una vittoria esterna in Big Ten quest’anno con lui al comando; 5-1 e due vittorie fuori casa, più lo scalpo di Purdue, sin dal suo licenziamento, con Diebler a fare da traghettatore. Troppo tardi, forse, per permettere ai fan dei Buckeyes di riporre il maalox sullo scaffale (niente March Madness per loro, salvo miracoli al torneo di conference) e molto probabilmente non abbastanza perché Diebler venga promosso a HC a tutti gli effetti lì (Dusty May e altri nomi grossi sono nell’aria), però almeno è in posizione per trovare un bel posto altrove l’anno prossimo.

 

Big Sky, belli gli upset ma quanto costano. È subito terremoto al torneo di conference: le numero 1 e 2 del tabellone (Eastern Washington e Northern Colorado) vengono fatte fuori rispettivamente dalle numero 10 e 8. È il bello di marzo, ma anche il suo lato peggiore: una low-major conference che fatica enormemente a mandare una formazione alla March Madness con seed superiore al 14 dovrebbe tutelare le squadre migliori, garantendo un bye alle due top seed (non più di due gare per il titolo). Montana e Weber State, le due indiziate maggiori per vincere ora, hanno numeri simili a EWU nel NET: basterà per ottenere un seed decente?

Eemeli Yalaho (Texas Tech). I Red Raiders chiudono la regular season in bellezza battendo Baylor per la terza W di fila che vale il seed #4 (l’ultimo dei doppi bye) al torneo della Big 12. Tanto del merito va a Darrion Williams e Pop Isaacs, ma nella ricetta vincente serve anche il gregario che fa bene e in silenzio il proprio lavoro. Il lungo finlandese non mette su numeri particolari (7 punti e 3 rimbalzi in 16 minuti coi Bears) ma è bravo nel non far rimpiangere Warren Washington, con una difesa ordinatissima ed efficace che non troppi freshmen sono in grado di fornire. Pochi tiri in attacco, ma quelli giusti. Per ora va bene così.

 

MVC fra realtà e illusioni. Fino al Selection Sunday si parlerà incessantemente d’Indiana State e se merita o no un invito al Gran Ballo. Che sia davvero sottovalutata o meno, la realtà della Missouri Valley è questa: di base è una one-bid league che solo ogni tanto manda due squadre al Torneo. Per tradizione e per testardaggine, molti AD pensano però di vivere ancora nei tempi d’oro di Creighton e Wichita State, creando pressioni esagerate: Bryan Mullins e Dana Ford ne hanno pagato lo scotto in settimana, licenziati nonostante un buon lavoro svolto rispettivamente a Southern Illinois e Missouri State. Due coach giovani, bravi, ma mandati a spasso: la MVC, come già detto da più di qualcuno, è diventato il posto dove le carriere vanno a morire.

Terrence Shannon (Illinois). Purdue era troppo forte, è vero, ma chissà se Illinois avrebbe potuto avere la meglio se Shannon avesse giocato una partita discreta coi Boilermakers. Oscurato completamente dalla difesa di Purdue, il senior ha iniziato a sparacchiare mentre tutto il resto della squadra rigava dritto e manteneva la testa della partita. L’upset si poteva fare, ma serviva lo Shannon migliore, non quello che fissa il season-low con 11 punti. Si rifà domenica contro Iowa con 25 punti belli belli, ma se i Fighting Illini vogliono avere una chance a marzo, tanto passa dalle prestazioni della loro stella.

 

Florida. Pronti qui ad osannarli dopo un secondo tempo da 61 punti contro Alabama che gli è valsa una grandissima vittoria, anche in ottica March Madness, che di colpo si spengono all’ultima di campionato perdendo contro Vanderbilt. Non c’è vittoria convincente che tenga quando subito dopo soffri contro una delle peggiori squadre della Division I, perdi la palla sopra di uno a venti secondi dalla fine contro la difesa press e ti fai segnare in faccia senza opporre tanta resistenza. Vanificato il grande sforzo contro Bama con una sconfitta tragicomica.

Kyle Filipowski (Duke). Da povera stella coccolata da tutti dopo l’incidente di Wake Forest a nuova personificazione di cattivone di Duke in stile Grayson Allen. Il boxscore messo insieme contro North Carolina conta zero se perdi in casa nella rivalry più importante del college basketball, vedi gli avversari festeggiare un titolo sul tuo parquet e macchi ulteriormente la serata con un gesto censurabile. Clamoroso infatti lo sgambetto di Filipowski ai danni di Ingram. E quasi comico il finto zoppichio poco dopo. Gli arbitri non hanno visto, ma le telecamere sì e sui social media è stato un bel festival del sarcasmo a sue spese.

 

Villanova. Missione compiuta con Providence e via di slancio verso le prossime sfide? Macché. Nova si arrende a Seton Hall e poi, in un modo o nell’altro, arriva a giocarsela punto a punto con Creighton, salvo essere gelata dal game-winner di Trey Alexander a 0.1 dalla fine. Ora la corsa a un at-large bid si rifà complicatissima, forse addirittura proibitiva. C’è chi dice che i Cats non meritino un posto al Torneo, e magari hanno ragione. Una cosa è sicura: non è triste che Villanova ne vinca poche da due anni, ma lo è il fatto che Villanova non sembri più Villanova. A Jay Wright, tanto tanto tempo fa, era stato permesso di passare tre stagioni mediocri prima di ridare slancio al programma (e sappiamo poi com’è finita). Verrà offerta la stessa fiducia al suo erede designato, Kyle Neptune? Le cose nel college basketball sono cambiate parecchio nel frattempo…

Utah. Non è mai riuscita a prendere continuità in questa Pac-12 e finisce nel peggiore dei modi, con due sconfitte nell’ultima settimana che la relegano a un record 9-11 demolendo ogni minima possibilità di March Madness rimasta. Eppure un giocatore come Branden Carlson ce l’hanno avuto e ha anche messo 40 punti contro Oregon State in settimana. Tutto ciò non è bastato, anzi contro Oregon l’attacco ha smarrito del tutto le certezze nel secondo tempo. Lo stesso Carlson, dopo un grandissimo primo tempo da 17 punti, è rimasto al palo con soli due punti. Ci si aspettava ben altro dagli Utes.

 

Megarissa al femminile fra LSU e South Carolina. La finale della SEC ha fatto parlare di sé per motivi che tutto hanno a che vedere tranne che col basket giocato. Verso la fine dell’ultimo quarto, Kamilla Cardoso di South Carolina ha buttato a terra Flau’jae Johnson di LSU proprio sotto gli occhi di un arbitro. Panchine in campo, spintoni qua e là e sei espulsioni. Persino il fratello della Johnson si è lanciato oltre i tavolo degli ufficiali ed è rimasto in mezzo alle giocatrici per qualche istante prima di essere portato via da un poliziotto. La stella di LSU Angel Reese non era in mezzo alla zuffa, ma si era comunque segnalata in precedenza per aver tirato i capelli proprio della brasiliana delle Gamecocks. Insomma, un disastro. Sul parquet e anche in conferenza stampa, dove Kim Mulkey, coach delle Tigers che non è proprio un ritratto di pacatezza, ha gettato benzina sul fuoco dicendo che Cardoso avrebbe dovuto prendersela con una della sua taglia. Molto meglio l’allenatrice di South Carolina, Dawn Staley, che si è assunta la propria parte di responsabilità. A parole quantomeno: al di là dell’odore di santità che stampa e opinione pubblica le assegnano, l’iperaggressività delle sue giocatrici non è notizia di oggi.

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