Dalla pallacanestro giocata gli manca fare parte di un gruppo con un obiettivo in comune, ma l’arrivo sulla panchina lo vive come un prosecuzione naturale del suo percorso nel mondo del basket. Percorso che lo ha portato a giocare per i migliori club italiani ed europei e persino sotto i riflettori della NBA. Dopo 13 anni di carriera in campo, quest’anno Casey Shaw debutta sulla panchina di Vanderbilt come assistant coach. A BasketballNcaa ha raccontato le sue prime impressioni sui Commodores e ovviamente il suo ricordo dell’Italia.
Correva l’anno 1998 quando i Philadelphia 76ers lo scelgono al secondo turno, con la 37esima chiamata del draft. Il debutto in Nba non è però dei migliori per il centro di Lebanon, Ohio dato che scende in campo solo 9 volte racimolando solo 2 punti in tutta la stagione.
Da qui la decisione di tentare nuove strade, che lo portano fino al campionato italiano dove gioca per la maggior parte della sua carriera, vestendo le maglie di Milano (nel 2002 e 2007), Cantù, Trieste, Roma, Reggio Calabria, Pesaro e Teramo. E’ in Italia che riesce a tirare fuori il meglio di sé, soprattutto nel 2005 quando finisce la stagione in testa alla classifica dei rimbalzi e vince il premio come miglior centro della serie A. E dato che in Italia ci sta così bene, nel 2000 ottiene anche la cittadinanza.
“A dire il vero, i ricordi migliori che ho del vostro paese non c’entrano nulla con il basket – ci racconta da Nashville -. Mio figlio è nato a Roma ed è questo il mio ricordo più bello. E poi tutti i miei bambini hanno vissuto e studiato in Italia quando erano piccoli e hanno trascorso anni molto formativi in Italia. Abbiamo amici meravigliosi un po’ ovunque con cui siamo in contatto ancora oggi. Le persone, il cibo, la cultura.. tutto è fantastico nel vostro Paese. Qualche volta mi chiedo perché me ne sono andato!”.
Sono passati sei anni dall’ultima partita come giocatore e, più che i premi, i punti e le stoppate, quello che gli manca di più è “essere in campo con i ragazzi e lavorare per un obiettivo comune. Non c’è nulla al mondo dell’emozione di fare parte di una piccola squadra di basket e vincere le partire con delle persone che consideri dei fratelli”.
Ma qual è stato il percorso che lo ha portato a voler diventare allenatore dopo aver messo la parola fine alla sua carriera come giocatore nel 2010? Innanzitutto, il coaching program promosso e voluto dalla NBRPA (la National Basketball Retired Players Association) al quale partecipa nel 2014, dopo una beve parentesi nell’ambito della gestione finanziaria; poi l’esperienza con gli Athletes in Action, prima come direttore del Camp dal 2003 al 2010, poi come assistente durante il College Basketball Tour lo scorso agosto: “ Il viaggio con gli Athletes in Action in Italia mi ha permesso di prepararmi al meglio per questa stagione in un ambiente competitivo ma rilassato in quanto non c’era in gioco tanta pressione come quella in cui vivremo la nostra stagione. Abbiamo affrontato delle ottime squadre ed è stata un’ottima palestra”.
“Diventare allenatore è stata comunque un’evoluzione naturale dall’essere un giocatore – spiega – Nel mio caso, l’aver giocato a livello professionistico per quasi 15 anni e averlo fatto per alcuni dei migliori coach del mondo, inclusi quelli italiani, sono state esperienze che mi hanno condotto verso la strada dell’allenatore”.
Una strada che farà al fianco del cognato, visto che il nuovo coach di Vanderbilt è Bryce Drew, fratello di sua moglie Dana, anche lui con un breve trascorso in Italia per 8 partite nel 2004 con la maglia della Viola Reggio Calabria. Arrivato nello scorso aprile da Valparaiso per sostituire un’icona come Kevin Stallings, per 17 anni coach dei Commodores, Drew avrà decisamente bisogno di aiuto: “Come assistenti abbiamo delle responsabilità che vanno al di là del semplice allenare: ci occupiamo del reclutamento, degli scout, della preparazione per le partite e guardare ore e ore di filmati da analizzare per gli allenamenti. Ecco…la parte più difficile di questo lavoro è semplicemente il tempo che si impiega per farlo il meglio possibile. Poi lavoro con i lunghi dato che quello era il mio ruolo. Cerco di trasmettere la mia esperienza e durante gli allenamenti faccio vedere i movimenti che usavo da giocatore. Stare in campo con i ragazzi è la parte migliore del lavoro”.
Passare dal campo alla panchina potrà essere anche naturale, ma sicuramente la pallacanestro non è la stessa cosa da dentro e fuori il campo: “C’è una grande differenza tra giocare e allenare, per questo ho bisogno di imparare a guardare il gioco dalla zona laterale, dalla panchina. Devo migliorare nell’area dello sviluppo dei giocatori e imparare a leggere al meglio le situazioni di gioco per permettere loro di essere preparati”. Più a suo agio invece nella ricerca dei giovani talenti: “Sento di avere un buon occhio nel reclutare i giocatori capendone il talento e le potenzialità subito grazie alla mia lunga esperienza”.
Esperienza che sicuramente rende Shaw un punto di riferimento per i suoi giovani Commodores. Soprattutto perché quando uscì dalla University of Toledo (Ohio), nel 1998, lo fece con la reputazione di giocatore pronto per l’Nba. Quale consiglio darebbe quindi ai suoi ragazzi? “Che devono lavorare sodo…. ma un po’ di fortuna non guasta. Arrivare fino al livello professionistico è difficile, ma con l’impegno (e con il giusto fisico) ci si può arrivare”.
Non sarà facile guidare Vanderbilt fino al torneo Ncaa, soprattutto dopo che Damian Jones e Wade Baldwin, i due migliori giocatori (e realizzatori) dell’anno scorso sono andati in Nba. Luke Kornet, Matthew Fisher-Davis e Riley LaChance sono giocatori solidi e di esperienza, ma sarà probabilmente una stagione davvero dura per la squadra di Nashville, come ha già fatto capire la sconfitta subita da Marquette per 95-71 nella partita di debutto. Nella SEC poi, oltre alla strafavorita Kentucky, il team di coach Drew se la dovrà vedere con tante potenziali squadre da torneo. “Siamo nella SEC, una delle conference più toste – conclude Shaw -. Naturalmente la rivale per eccellenza è Kentucky, ma tutte le partite che dovremo affrontare saranno difficili. Davvero non avremo mai una sola serata di riposo, proprio come succede nella Serie A italiana!”.