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Virginia, dall’inferno al paradiso

Autore: Riccardo De Angelis
Data: 3 Apr, 2019

“Sono in pace con me stesso ma ho molta fame”. Coach Tony Bennett si era espresso così alla vigilia di quella che poi sarebbe stata una Elite Eight leggendaria con Purdue. La disfatta storica di un anno fa contro UMBC – prima seed numero 1 a perdere con una 16 – non poteva che lasciare il segno. Quella batosta è stata il motore che lo ha spinto a essere un allenatore migliore. Bennett, però, è una persona molto particolare per filosofia e modi di fare (immaginate un incrocio fra George Clooney e Ned Flanders in un monastero zen): il suo obiettivo dichiarato era quello di inseguire nuove mete senza esasperazioni e, quindi, essere al contempo riconoscente per quanto ottenuto fino ad allora nel suo cammino personale. Gratitudine e ambizione: trovatelo voi un equilibrio così e camminerete a un metro da terra. Oppure, come nel caso del buon Tony, sarete in cima a una scala a esultare.

Tony Bennett

Un dono doloroso. Bennett non poteva dare definizione più azzeccata di quell’incredibile schiaffo ricevuto un anno fa, quando aveva subito il risultato più impronosticabile di sempre, quel -20 al primo turno della March Madness. Probabilmente Virginia sarebbe oggi comunque una squadra fortissima anche senza quella sconfitta e sicuramente ora staremmo scrivendo una storia diversa, se Mamadi Diakite non avesse fatto il miracolo mandando i suoi all’overtime contro Purdue. Sono le sliding doors consuete eppure sempre affascinanti del college basketball.

Al netto di tutto questo, ci risulta impossibile scrollarci di dosso la sensazione che proprio quel dramma sportivo abbia permesso agli Hoos di compattarsi in una maniera altrimenti impossibile e che ciò sia proprio quel “di più” che, adesso, permette a Virginia di affrontare qualsiasi avversario con la convinzione perenne di poter vincere. Perché questi ragazzi hanno sofferto su un campo da basket più di chiunque altro e covato voglia di rivincita come nessun altro, per un anno intero.

 

Qualcosa è cambiato

C’è quindi qualcosa di diverso in questa Virginia rispetto a quella degli anni scorsi. E non soltanto a livello emotivo. Tutto, come sempre, parte da una difesa granitica modellata sui principi della celebre Pack Line Defense. Gli Hoos sono quinti in Division I per Defensive Rating e questo ovviamente non sorprende nessuno. Sono però anche secondi per Offensive Rating, un qualcosa di inaudito per una squadra di Bennett. Solo i Cavaliers del 2015-16 si avvicinarono a certi livelli d’efficienza (ma neanche troppo, tutto sommato: 120.6 contro 123.0 di ORtg).

Come ci sono riusciti? In sostanza, alternando due tipi di attacco diversi. I ritmi lentissimi sono sempre quelli amati e imposti in maniera inesorabile in ogni gara (attenzione, però, perché Virginia è letale in contropiede pur non cercandolo in maniera esasperata) ma al trito e ritrito Blocker Mover, Bennett ha affiancato in maniera crescente un tipo di schema (Continuity Ball Screen) che meglio sa liberare la versatilità degli uomini a sua disposizione, pescare mismatch da sfruttare e che è stato premiato dalle eccellenti prestazioni nel tiro da tre di Kyle Guy (42.7%), Ty Jerome (39.9%) e De’Andre Hunter (42.4%).

Le armi a disposizione però non si esauriscono qui e proprio la March Madness ce lo ha dimostrato. Virginia si presentava al Torneo con un gran bel 41% dall’arco in stagione: nelle ultime quattro partite, però, ha accumulato un 29.9% orrendo, in parte a causa della crisi attraversata da Guy nei primi tre incontri (3/26 da tre!). La solidità difensiva da una parte e le seconde opportunità dall’altra hanno fatto la differenza (11 rimbalzi offensivi contro Oregon e addirittura 17 contro Purdue).

Kyle Guy ha fatto cilecca da tre a inizio torneo ma si è infine sbloccato contro Purdue.

Pochi ma buoni

Bennett conta su pochi uomini. Nelle Sweet 16 contro Oregon, la panchina ha accumulato 11 minuti distribuiti fra tre giocatori; nel turno successivo, nonostante il supplementare giocato, 35 minuti di cui 34 del solo Jack Salt.

La cosa non sorprende, per almeno due motivi. Primo: in generale, la profondità nelle rotazioni è un qualcosa che aiuta moltissimo durante la stagione regolare, ma che non è necessariamente un fattore-chiave nella March Madness, quando devi buttare in campo il meglio del meglio a tua disposizione e spremerlo fino all’ultima goccia.

Secondo: se guardiamo ai vari quintetti schierati in D-I e ai numeri da loro accumulati, lo starting five di Virginia è nettamente uno dei migliori in assoluto. Stando a quanto riportato da StatHouse, la line-up formata da Clark, Guy, Jerome, Hunter e Diakite è terza in D-I per efficienza complessiva fra attacco e difesa (0.391) e settima per plus/minus. Nessun altro quintetto fra le altre squadre giunte alle Final Four si avvicina a questi numeri.

De’Andre Hunter e Ty Jerome, colonne portanti di Virginia

È in primis grazie a loro, dunque, se Virginia è arrivata fin qui. Dalla vittoria scaccia-fantasmi contro Gardner-Webb a quella da film contro i Boilermakers, i Cavaliers hanno messo in fila quattro successi che, pezzo dopo pezzo, hanno finalmente confutato gli assunti storici sulla fallibilità di UVA nel mese di marzo. La loro risalita verso il paradiso è già compiuta, visto il traguardo raggiunto: ma con due partite ancora da giocare e il trofeo più grande di tutti da vincere, credete davvero che vorranno fermarsi qui?

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