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5 buoni motivi per seguire il basket NCAA

Autore: Riccardo De Angelis
Data: 23 Apr, 2020

La NBA ha i giocatori migliori del pianeta. L’Eurolega esprime un basket tecnicamente sopraffino. Fra tanta offerta della palla a spicchi globale, c’è però anche un mondo a parte, fantastico e per molti versi inimitabile, pieno di storie e personaggi unici. È il mondo della Ncaa. Perché seguirla? Vi diamo cinque risposte.

Perché continuerà a sfornare campioni

Il ruolo crescente della G League e la scelta di Jalen Green hanno di recente indotto voci di vario tipo – quasi mai focalizzate sul college basket – a fare il funerale alla Ncaa. Sua maestà la Division I però più probabilmente continuerà a godere di buona salute.

Primo, perché anche se i nuovi scenari NBA attireranno più giocatori di quanto non avvenisse all’epoca dei Kobe e dei LeBron (bisogna vedere quanti), la Ncaa ha i mezzi e l’attrattiva per continuare a produrre giocatori pro di alto livello tramite percorsi di medio e lungo termine (così com’era prima dell’era dei one-and-done).

Secondo, perché la qualità del suo basket passa solo secondariamente dai 5-star che transitano quasi sempre per una sola stagione nella D-I. I freshmen d’élite piacciono tanto a Espn per non fare cambiare canale agli occasionali, ma se date una sfogliata a tutte le squadre da Final Four dall’introduzione della regola dei one-and-done ad oggi, vedrete che la maggior parte dei successi sono arrivati con giocatori esperti e non con matricole talentuose.

Perché quella Ncaa, alla fin fine, è pur sempre una pallacanestro dove la mano del coach pesa tanto e fornisce identità tecniche precise (con più varietà di stili rispetto al mondo pro) che per funzionare al meglio hanno bisogno di elementi rodati. La Ncaa è lungi dall’essere perfetta e ha bisogno di modernizzarsi in più sensi, ma ha il materiale umano ed economico per continuare a essere un’opzione di successo.

Myles Powell

Perché è la seconda casa dei talenti italiani

Nel basket odierno, l’allargamento delle frontiere va in più sensi e interessa giocatori e giocatrici di tutto il globo. L’Italia non è estranea al fenomeno e i nostri prospetti ormai non seguono necessariamente il canonico percorso domestico. Capita così di avere un Matteo Spagnolo al Real Madrid o un Sasha Grant al Bayern Monaco, ma gli USA sono di gran lunga la destinazione estera più frequentata.

Il numero di azzurri in Division I si è allargato costantemente a partire dalla stagione 2015-16 (quella degli esordi di Akele, Mussini e Oliva). Da Davide Moretti ad Alessandro Lever fino a Gabriele Stefanini e Tomas Woldetensae: nella NCAA non mancano italiani il cui futuro sarà probabilmente legato alla maglia della nazionale, in una misura o in un’altra. Nel percorso intrapreso da loro oggi c’è un assaggio di quel che potranno dare domani.

Davide Moretti

Perché ha rivalità e atmosfere uniche

C’è chi si lamenta per l’aria soporifera – in campo e sugli spalti – di molte gare di regular season nella NBA. Beh, col college basket è tutta un’altra storia. L’attaccamento ai colori e la partecipazione del pubblico sono completamente diversi da quelli che caratterizzano lo sport professionistico. È ciò molto spesso rende elettrica l’atmosfera delle gare di conference season, specie fra le leghe di maggior spessore della Ncaa.

Un tifo partecipato, entusiasta e spesso originale che va dalle student section e che sa coinvolgere tutti gli spettatori. Non un tifo europeo nelle sue dinamiche, ma che ugualmente si accende fino a infiammarsi quando ci sono rivalità storiche in ballo. Duke e North Carolina, Kentucky e Louisville, Indiana e Purdue, le sfide del Big 5 a Philadelphia: sono solo alcuni dei tanti derby grandi e piccoli che da generazioni fanno battere il cuore nel college basket, sfide per le quali gli studenti si accampano volentieri per giorni davanti al palazzo pur di agguantare un biglietto.

 

Perché ci sono dei veri Davide che battono dei veri Golia

NBA ed Eurolega sono dei campionati. La NCAA, invece, è una galassia composta da oltre 350 formazioni sparse lungo il territorio statunitense. Risorse economiche, corpo studentesco, fan base variano in maniera notevole tra un’università e l’altra, ed è quindi normale che il livello di gioco possa essere enormemente diverso fra le 32 conference che compongono la Division I.

Si va da una Kentucky che ogni anno ha aspirazioni di titolo nazionale e che supera abbondantemente i 20mila spettatori a partita a una Chicago State – tanto per fare un nome – che non arriva a 400 di media e che, lo scorso dicembre, festeggiava come se non ci fosse un domani dopo aver interrotto una serie negativa di 53 gare perse fuori casa.

Mondi incredibilmente distanti che di tanto in tanto s’incontrano, con risultati mai scontati. Sì, perché la Ncaa è il regno dell’upset, è quel posto dove ogni singola gara – anche a inizio stagione – pesa e viene interpretata al massimo da chi la gioca, specie quando i pronostici sono sfavorevoli. È quel posto dove una singola vittoria da underdog viene ricordata per tutta la vita dai ragazzi che la conquistano, che si tratti di futuri pro o di gente che non calcherà più un parquet dopo la laurea.

 

Perché la stagione culmina nel torneo più bello del mondo

Il fascino di Davide e Golia è parte integrante del torneo che assegna il titolo nazionale, comunemente noto come March Madness. Squadre piccole e grandi da ogni angolo degli States entrano in un gigantesco tabellone i cui destini tengono incollati agli schermi milioni di persone, fra occasionali e appassionati duri e puri. L’eccitazione che accompagna i primi due turni del Torneo Ncaa non ha pari nello sport e quei giorni di gara sono vissuti come un evento nazionale. Un vero fatto di costume, quasi una festa nazionale. La posta in palio aumenta di turno in turno e il fatto che si giochi in gare secche rende il tutto molto adrenalinico e l’esito spesso poco prevedibile. E poi l’atto finale, giocato in stadi da football, è quanto di più grande un giocatore possa sognare.

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