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Buffalo Bull(dozer)s all’assalto della MAC

Autore: Riccardo De Angelis
Data: 10 Gen, 2019

Una stagione sportiva ha bisogno di una storia. Una storia ha bisogno di un protagonista. E un protagonista ha bisogno di un antagonista.

Buffalo, una delle tre squadre della Top 25 proveniente da una mid-major conference, ha appena iniziato la propria stagione nella Mid-American e un po’ tutte le penne e voci del college basketball – evidentemente preoccupate dalla prospettiva noiosa di un dominio incontrastato – si sono precipitate nell’indicare qualcuno che potesse metter loro i bastoni fra le ruote. La risposta è stata praticamente univoca: Toledo.

Ebbene, Buffalo ha incrociato gli aspiranti rivali in settimana e li ha rispediti a casa con un bel 110-80 sul quale meditare. Come a dire: “Hey MAC, questo è il meglio che sai fare?”. Addio antagonista, addio storia e tanti auguri al prossimo avversario dei Bulls.

Tre punte di diamante

Due vittorie in trasferta con le big West Virginia e Syracuse, una su campo neutro con una squadra arcigna come San Francisco: quello dei ragazzi di coach Nate Oats è un percorso che ora avremmo potuto definire netto, se non fosse stato per Markus Howard e il suo secondo tempo da 40 punti (45 in totale) nel match-up prenatalizio con Marquette.

C’è la possibilità (davvero alta) che Buffalo non perda una sola partita nella MAC. Insomma, la trama qui rischia di assumere contorni da reality palloso fino a marzo. In compenso, abbiamo qualche personaggio su cui continuare a mettere gli occhi addosso. Prendete Jeremy Harris, per esempio, che ha aggiornato il suo career-high proprio nella partita con Toledo: 34 punti (7/9 da due, 6/10 da tre, 2/3 ai liberi), 7 rimbalzi, 5 assist e 4 recuperi in 31 minuti. In una parola, devastante. L’esterno mancino dei Bulls è un concentrato di movenze eleganti, felpate e fiuto per un canestro che sa trovare da piazzato o dal palleggio, dalla media o dalla lunga distanza. Ha percentuali da tre in discesa rispetto all’anno scorso (da 41.8% a 31.7%) ma la fiducia con la quale esprime il suo gioco è immutata.

 

Poi c’è CJ Massinburg, top scorer della squadra (17.7 punti) e macchina da canestri. Grandissimo tiratore da tre, sempre pronto a mettere i piedi a posto in catch and shoot, non perfettamente continuo ma è difficile che gli capitino giornate storte (44.2% in stagione). Massinburg non è solo un cecchino, bensì un giocatore con varie armi nella metà campo offensiva e capace di destreggiarsi quando punta il ferro. A Morgantown se lo ricorderanno per un bel pezzo, dopo i suoi 43 punti rifilati a inizio novembre.

 

Infine c’è Nick Perkins, un altro mancino, padrone del post basso con licenza di tirare da tre: non in maniera super, a dire la verità, ma la fiducia non gli manca e un 33.3% dall’arco da parte di omaccione di 203 cm per 113 chili non si butta via. Quasi più largo che alto ma leggero sui piedi, ha bei movimenti puntando il ferro e il fisico massiccio che si porta a spasso è davvero un problema per gli avversari a livello di mid-major, vista anche la grandissima reattività con la quale strappa rimbalzi in attacco che trasforma in canestri.

Nick Perkins

Tre senior, tre stelle che producono all’incirca il 55% dei punti e il 50% dei rimbalzi della squadra. Il trio Massinburg-Harris-Perkins è esaltante ma sarebbe ingiusto ed erroneo ridurre il tutto solo a loro: c’è da rendere onore al contributo importantissimo di gente come Davonta Jordan, Jayvon Graves e Dontay Caruthers, ma bisogna soprattutto sottolineare come sia l’unione di tutti questi elementi a rendere Buffalo grande.

Una macchina da guerra

Un attacco da corsa ma altamente efficiente, in D-I ci sono solo tre squadre che producono quanto o più di Buffalo mantenendo ritmi elevati: Duke, North Carolina e NC State. In difesa lo sforzo profuso è sempre alto: tutto questo, messo insieme, non può che produrre una vera e propria macchina da guerra in un ambito come la MAC. Vederli dal vivo – come ci è capitato di fare a fine novembre, al Belfast Classic – restituisce in maniera molto vivida la dimensione del loro dominio, la quantità di armi a disposizione. Il momento della stagione era di quelli in cui una squadra di college è ancora lontana da un certo picco di performance, ma scesi in campo in mezzo ad altre mid-major, è apparso chiaro a tutti sin da subito che i Bulls fossero proprio di un altro livello, per di più senza i fronzoli da nobile.

Mentalità operaia: un’attitudine che ogni coach aspira a trasmettere, che molti vogliono vantare ma che pochi possono farlo a ragion veduta. Oats è fra questi ultimi: la sua impostazione esigente va a nozze con un gruppo colmo di ragazzi arrivati lì con qualcosa da dimostrare.

Coach Nate Oats

Ecco, lì certe cose le prendono proprio alla lettera. A Buffalo c’è un premio speciale per chi dimostra di sbucciarsi le ginocchia: un casco da muratore – blu, ovviamente – che va ad incoronare il giocatore che, al termine di ogni partita, ha collezionato il maggior numero di blue collar points: due per un rimbalzo offensivo, tre per un recupero in tuffo, quattro per uno sfondamento subito.

In allenamento, sono molto frequenti delle partitelle veloci agli otto punti nelle quali si può perdere automaticamente se qualcuno commette quel tipo di errori sui quali il coach non transige, come il non comunicare in difesa o il passeggiare mentre gli altri corrono in attacco.

Niente compromessi in allenamento e carica costante in partita. Al Belfast Classic, a un certo punto, abbiamo visto il volto di Oats assumere tutti i colori dell’arcobaleno nel match con USF, mentre si mangiava vivo il povero Caruthers (“What are you doing?!”) dopo una difesa rivedibile contro Frankie Ferrari. Caruthers poi salverà la pellaccia grazie a un paio di giocate decisive nel finale.

Un piglio appassionato e irremovibile, quello del coach, che sicuramente tornerà utile nei prossimi due mesi, visto che alla sua Buffalo, a un certo punto, potrebbe anche venire un colpo di sonno a forza di rifilare trentelli.

Coach Oats immortalato durante la partita con Toledo e che sembra voler dire “scusate se siamo troppo forti”

La ricetta di un successo sorprendente

Arrivata in Division I nel 1991, Buffalo non era mai stata una di quelle mete che fanno brillare gli occhi a chi è in uscita dalle superiori. La squadra dello stato di New York però è riuscita ad accedere al Torneo Ncaa per ben tre volte negli ultimi quattro anni, roba a dir poco difficile per un college di una one-bid league.

Come ci è riuscita? Tutto è partito dall’assunzione di Bobby Hurley come head coach nel 2013: un nome pesante per il suo passato di giocatore – e non uno fra i tanti – a Duke. Oats è fra i suoi assistenti e sfrutta quanto può la fama del suo superiore per reclutare i giocatori che gli interessano: “È un buon nome da vendere e facemmo un buon lavoro nel venderlo”. Hurley resta in panchina per due anni, giusto il tempo di portare Buffalo al primo Torneo della sua storia, dopodiché fa fagotto per andare nella ben più prestigiosa Arizona State, portandosi dietro un paio di giocatori, Torian Graham e Shannon Evans.

Ora tocca a Oats prendere il suo posto, proprio lui che, prima di Buffalo, aveva avuto esperienza da capoallenatore soltanto a Romulus, high school dell’area di Detroit. È un esordiente, nel roster ha parecchie caselle vuote da riempire rispetto alla stagione precedente. Il compito è difficile, gli fa perdere il sonno (letteralmente) ma alla fine lo stress non cede il passo al panico: lui e il suo braccio destro Bryan Hodgson hanno le idee chiare su come mandare avanti la baracca.

Nick Perkins insieme a Bryan Hodgson

La storia recente ci parla di una sola annata deludente (due anni fa, con una squadra i cui senior non avevano dimostrato troppe motivazioni) che ora appare come un semplice singhiozzo nel bel mezzo di un percorso strepitosamente in ascesa.

Il segreto sta nell’abilità dell’accoppiata Oats & Hodgson di vedere talento là dove altri tendono a girare le spalle, di cercarlo in quegli angoli dove le grandi della D-I di solito non si degnano di fare capolino. Un po’ come Steve Forbes a East Tennessee State (altra mid che da alcuni anni mantiene certi standard ininterrottamente), Buffalo ha un occhio di riguardo per il mondo dei junior college, fregandosene dei pregiudizi che a volte accompagnano i giocatori della categoria (“Se Tizio non è andato subito in D-I, sicuro ha qualcosa che non va”, e cose così).

Sui nove giocatori in rotazione, tre sono passati per un JUCO, ovvero i già citati Harris e Caruthers insieme a Montell McRae. Reclutare un giocatore da quell’ambito significa averlo a disposizione per soli due anni (tre, se va bene) ma col vantaggio di avere fra le mani qualcuno pronto ad avere impatto immediato: “Al nostro livello attuale, capaci di stare in Top 25, penso che dobbiamo solo trovare i migliori giocatori che hanno il carattere adatto alla nostra cultura, indipendentemente da dove provengono”, dice Oats.

Hodgson riassume molto chiaramente il perché dell’attenzione verso i junior college: “Tu trovami tre ragazzi delle high school capaci di rimpiazzare Harris, Perkins e Massinburg e io ti dirò che quella è gente che andrà nella ACC, capisci cosa voglio dire?”.

CJ Massinburg

Intuizione e bravura, certo, ma quando si recluta ci vuole anche un pizzico di fortuna. Da questo punto di vista, Massinburg è davvero il coniglio dal cilindro del programma. Oats non era rimasto folgorato nel vederlo, ma ha avuto l’intuizione giusta nel dar lui una possibilità. Giocatore apparentemente normale in uno stato, il Texas, stracolmo di talenti, CJ era stato snobbato alla grande in uscita dall’high school, ritrovandosi a poter scegliere solo fra Prairie View A&M (squadra della SWAC e, per questo, perennemente nei bassifondi Mid), un junior college o proprio Buffalo. Oats pensava di fargli fare un anno da redshirt. Massinburg però aveva altri piani e i suoi 17 punti rifilati a Duke furono semplicemente più che abbastanza per indurre il coach a rivedere i propri piani.

Il texano è davvero un caso a sé ma la sua perseveranza nel cercare un’opportunità vera è in qualche modo emblematica del cammino di questa Buffalo: la squadra degli underdog, dei talenti trascurati, dei ragazzi che si sono guadagnati ogni minuto e ogni vittoria facendo il doppio o il triplo degli sforzi rispetto a gente che, a ragion veduta, non meritava necessariamente più. Provate a non fare tifo per loro, a marzo.

 

Fonti e approfondimenti

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