Per i giocatori italiani, questo periodo di offseason coincide molto spesso col ritorno a casa. È così anche per Francesco Badocchi che sta approfittando del periodo per passare un po’ di tempo nella sua Milano: «È veramente bello tornare a casa e rivedere la mia famiglia, che vedo veramente poco, oltre agli amici delle superiori e delle medie». Relax e divertimento, dunque, ma solo fino a un certo punto perché «bisogna comunque tenersi allenati, quindi in palestra ci si va sempre».
Per Badocchi è ovviamente ancora freschissimo il ricordo del titolo NCAA vinto dalla sua Virginia, in un contesto che solo il college basketball sa regalare: «Sicuramente una delle cose più inaspettate è stata l’arena. Mi avevano detto che era veramente enorme, ma vederla la prima volta uscendo dal tunnel era terrificante. Non avevo mai visto un campo da basket sembrare così piccolo in mezzo a 70mila posti. E poi i megaschermi, giornalisti e tifosi ovunque in tutti i momenti».
Virginia perderà diversi attori principali di questa stagione storica – De’Andre Hunter, Ty Jerome, Kyle Guy, Jack Salt – il che vuol dire spazi possibili per i volti nuovi (come Tomas Woldetensae) e per gli interpreti rimasti finora in seconda fila. Come Badocchi, appunto.
Quali sono le tue aspettative per la prossima stagione?
Come sempre, cerco di viverla giorno per giorno e di lavorare sulle cose in cui devo migliorare. Certamente punto ad avere un bel po’ di minuti in campo e di avere un grosso impatto sulla squadra. Ho già parlato con l’allenatore, mi ha detto che gli è piaciuto tanto come mi sono allenato nell’ultimo paio di mesi e ha detto che se continuo così – migliorando l’uso della mano destra, il tiro, le entrate – non avrò problemi ad aver minuti. Sfortunatamente nel primo anno e mezzo non sono riuscito a giocare per problemi fisici, però adesso penso di poter dare un buon contributo alla squadra.
Già dai tempi di Cernusco hai dovuto affrontare infortuni seri ed è abbastanza notevole che, dal punto di vista fisico, hai sempre recuperato in pieno. Dal punto di vista mentale invece com’è stato per te affrontare questi stop forzati?
La gente non nota la parte mentale quando ogni anno sei lì a combattere con un infortunio. Nella testa di un atleta c’è sempre quel “tra quanto ritorno?”, non si pensa mai che sia la fine perché si vuole sempre giocare. Per me che ho sempre avuto problemi al ginocchio per 6 o 7 anni, anche questo anno e mezzo è stato duro. Però adesso fortunatamente, da gennaio, sono riuscito a mettere a posto tutto e mi sento veramente bene. Sono davvero contento di essere al 100% e dovrebbe restare così per un bel po’.
In high school giocavi in un contesto molto particolare nel quale facevi valere facilmente l’atletismo e giocavi esclusivamente nel raggio di tre metri da canestro. Chi ti conosce da prima però ha visto un altro tipo di giocatore. Quale Badocchi dobbiamo aspettarci dall’anno prossimo?
In Italia ero molto più abituato a essere un giocatore più versatile e a giocare da ala. Poi sono andato in high school, han visto la mia altezza e il mio atletismo e mi han messo dentro e basta. Per due anni ho giocato praticamente da centro. Questa ovviamente non è una soluzione qui al college, perché ce ne sono di giocatori molto più grandi e grossi di me. Magari tornare a uno stile più versatile, quello di quando giocavo a Cernusco e all’Armani, un 3-4 che può stare un po’ in post ma riesce a gestire la palla da 3.
Ci sono dei modelli ai quali fai riferimento?
Per la parte difensiva ho guardato tanti filmati di Isaiah Wilkins. Offensivamente non era di certo una delle parti principali di Virginia, però riusciva a stare sia in post che a giocare un po’ da fuori. Guardando De’Andre Hunter e marcandolo praticamente ogni giorno, ho imparato qualche cosa anche da lui. Sto anche migliorando tanto il tiro da tre, il palleggio con entrambe le mani, le conclusioni con la mano destra. Cerco di essere il giocatore più versatile possibile.
Per quanto riguarda l’ambiente di Virginia, come descriveresti coach Tony Bennett? C’è gente che ci ha provato ma sembra impossibile trovargli un difetto…
È veramente una persona adorabile, con la quale puoi parlare senza problemi. Mi ricordo la mia visita, tutte le altre squadre parlavano praticamente solo di basket mentre con lui non ne ho parlato quasi mai. Parlavamo di cosa mi piacesse fare oltre al basket, della mia famiglia. È una persona buonissima, senza pretese. Quando gli avevo detto che avrei dovuto operarmi al ginocchio, lui non ha avuto problemi, voleva solo che fossi al 100% quando avrei avuto la possibilità di giocare. Quando invece avevo parlato di questa cosa con altri allenatori, non erano tanto felici. Penso che quello sia un aspetto legato al discorso del “sei un giocatore di basket per me, quindi vieni a giocare a basket”. Per lui è più un “vieni nella mia famiglia”, cioè gli interessa come giochi, però ti guarda anche come persona.
E invece come allenatore?
Durante gli allenamenti, Bennett e altri due assistenti stanno sulle guardie, mentre noi ali e lunghi abbiamo altri assistenti. Devo dire che mi ha sorpreso: è il primo allenatore che ho avuto che non urla quasi mai. Riesce a farsi sentire anche quando è calmo, a trasmettere quello che vuole trasmettere. Lui dice le stesse cose in un modo diverso a diversi giocatori, perché certi reagiscono in una maniera e altri in un’altra. L’avrò visto urlare una o due volte in due anni che sono qui.
A proposito di parte extracestistica, qualche tempo fa hai dato una piccola dimostrazione del tuo lato musicale, suonando ‘One Shining Moment’ durante i festeggiamenti per il titolo. Però quando sei stato ospite di Backdoor Podcast hai anche confessato che quella non è una gran canzone. Da musicista, qual è la parte peggiore? La melodia o le parole?
Mah, sinceramente la melodia e le parole non vanno insieme. Penso che abbiano preso una canzone felice con delle parole di pallacanestro che proprio non coincidono per me. Quando sento una canzone così, non penso al basket o al fatto di aver vinto qualcosa. Non mi sono sentito compatibile con la canzone, però ho dovuto suonarla.
Per quanto riguarda i tuoi gusti, hai un tuo pantheon personale di musicisti preferiti?
Io ascolto veramente di tutto: R&B, hip hop, rock, jazz, blues. Quindi ho idoli praticamente in tutti i generi di musica. Con la chitarra elettrica suono tanto rock, quindi penso a Slash, a Malcolm Young degli AC/DC. Per quanto riguarda il pianoforte, Oscar Peterson è uno dei miei preferiti. Fra i grandi, in generale, penso a John Coltrane, Dizzy Gillespie, Charlie Parker. Ce ne sono tanti!
Coltivare un talento di certo ti forma come persona e, nel tuo caso, ci sono due passioni alle quali ti sei dedicato in modo particolare. Per te l’essere atleta e l’essere musicista sono due cose separate o hanno dei punti di contatto per quanto riguarda ciò che ti hanno insegnato?
Suonare il piano mi ha aiutato col basket per quanto riguarda il tatto, nell’avere mani più morbide con la palla. Quando suono il piano, so esattamente cosa suonare e come suonarlo, quindi ho più sensibilità nelle mani. Mentalmente, sia il basket che la musica mi portano in un altro spazio. Anche prima di giocare una partita, ascoltare musica mi porta proprio in un’altra dimensione. Col basket è lo stesso: quando sto giocando, non penso ad altro. Tutto il tempo libero che ho dagli allenamenti e dallo studio, lo passo a suonare il piano e la chitarra. È una cosa strana da dire, però ha molto senso per me: mi porta in un altro spazio. Si ferma il tempo. Come se fosse una forma di meditazione.