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Jovanovic, la storia di Nik Numero 2

Autore: Isabella Agostinelli
Data: 3 Gen, 2019

Ve ne avevamo già parlato nel nostro approfondimento di inizio stagione, e ora è giunto il tempo di conoscere Nikola Jovanovic più in dettaglio. Arrivato negli States a 18 anni, ha prima conquistato la Florida per poi approdare a USC e contribuire alla rinascita di un programma che negli ultimi anni aveva perso un po’ di smalto. Anche se per pochi mesi, nel suo curriculum può vantare anche la Nba che rimane comunque il suo obiettivo. Ma se ne riparlerà solo tra tre anni. Ora per Nikola è il momento di crescere e maturare e all’Aquila Trento, dove le ambizioni non mancano, potrà sicuramente farlo. Ecco cosa ci ha raccontato.

Hai mosso i primi passi in Serbia ma poi, nel 2012, ti sei trasferito a Jacksonville in Florida per giocare nella Arlington Country Day School. Come è nata quella decisione?
È stata una mia decisione e la mia famiglia mi ha supportato fino in fondo. Sentivo che, se volevo arrivare a giocare ai massimi livelli, dovevo compiere quel passo, dato che negli Stati Uniti avrei sicuramente avuto un’esposizione maggiore alle leghe professioniste e soprattutto alla NBA. Inoltre, c’era l’aspetto dell’educazione che ha avuto un ruolo importante nella mia scelta: giocare nella Ncaa ti permette sia di avere un’ottima educazione e allo stesso tempo di allenarti in squadre che ogni anno sfornano top players. Così, anche se la Nba è l’obiettivo di ogni giocatore, all’epoca il mio primo pensiero era quello di essere un giocatore-atleta in modo da poter giocare e allo stesso tempo avere quell’istruzione che mi potrebbe servire in futuro. Al momento, in Serbia non conosco molti giocatori professionisti che possono vantare anche una laurea. Se potessi tornare indietro nel tempo e dover riprendere quella decisione, rifarei esattamente la stessa cosa.

A proposito della tua famiglia, tuo padre è stato un giocatore professionista. Quale influenza ha avuto su di te e qual è l’insegnamento più importante che ti ha dato?
Certamente. Mio padre è anche il mio migliore amico e insieme non solo parliamo di basket ma anche della vita. Ha giocato a basket per 15 anni a livello professionistico e quindi, chi meglio di lui può darmi consigli sulla carriera? Un giorno mi ha detto: “Qualsiasi cosa tu faccia, falla fino in fondo e in maniera tale che ti senta soddisfatto a prescindere dal risultato”. Da quel giorno, questo è diventato il mio motto e do quindi sempre il 100% in qualsiasi cosa decida di fare. È questo atteggiamento che mi ha permesso di migliorare anno dopo anno.

Hai qualche aneddoto legato a lui e al basket?
Quando avevo otto anni i miei idoli erano Vlade Divac e Peja Stojakovic: le loro performance contro i Los Angeles Lakers nelle finali della West Conference mi avevano stregato e ricordo che, per guardarle, io e mio padre ci alzavamo alle tre del mattino. All’epoca, forse, non capivo tutto del gioco, ma capivo l’importanza di quell’appuntamento e stavo sveglio fino a notte fonda per tifare i Kings. La settimana dopo ho avuto modo di stringere la mano a Vlade e da quel momento in poi il basket è diventato la mia vita.

Vlade Divac e Predrag Stojakovic in maglia Kings

Come è stato trasferirsi dalla Serbia agli USA?
Sinceramente la transizione non è stata facile: sono due mondi completamente diversi e per me si trattava della prima volta lontano da casa. Ma sono contento di averlo fatto: mi ha aiutato a maturare più velocemente e a essere pronto per diventare un uomo. Sono grato di aver avuto questa possibilità: alla Arlington Country Day School ho imparato l’inglese e sono cresciuto a fianco di persone incredibili, facendo lo sport che volevo fare.

Dopo aver trascinato gli Apache alla #1 dello stato della Florida, hai scelto USC tra le varie offerte che hai ricevuto. Cosa avevano i Trojans in più?
Ho ricevuto varie proposte prima che iniziassi le visite ufficiali. La cosa che mi ha colpito di più di USC è che ti offre il pacchetto completo: un programma di basket molto serio, grandi coach, un programma educativo tra i migliori degli States e una location da sogno. Il Galen Center, dove giocano e si allenano i Trojans, è a pochi passi da downtown Los Angeles e a poche miglia di distanza da dove giocano i Clippers. È una città che vive per il basket: nei giornali ci sono sempre notizie sui Lakers e sui Clippers e a fianco compare sempre anche il nome dei Trojans. È un contesto ideale per giocare a basket e che ti dà molta energia.

Il Galen Center

La tua carriera in Ncaa è stato un continuo crescendo. C’è stata una partita o un momento particolare che consideri il tuo preferito?
Ho iniziato a giocare quando ero molto piccolo e ho migliorato anno dopo anno. Con i Trojans ho giocato tanti match memorabili. Se dovessi sceglierne uno in particolare, direi la partita contro Arizona (nel gennaio del 2016) in casa: i Wildcats erano al numero 7 del ranking e siamo riusciti a superarli al quarto tempo supplementare (103-101). Se ricordo bene, è stato uno dei match più lunghi della storia dell’ateneo. Vincerlo poi davanti al tuo pubblico è stata una grande emozione. Ma se devo essere sincero, ogni match con la maglia di USC è stato speciale per me.

 

Nel tuo anno da junior, USC ha avuto la migliore stagione dopo diversi anni deludenti ed è approdata al Torneo Ncaa. Che ricordi hai di quella esperienza? 
Giocare il torneo per la prima volta è stato emozionante. Peccato aver perso al primo turno e soprattutto averlo fatto per colpa di un buzzer beater allo scadere (e che ha visto i Friars trionfare per 70-69). Contro Providence avremmo dovuto e potuto vincere. Quella sconfitta brucia ancora e quella notte non ho potuto chiudere occhio pensando a quel canestro e per come è arrivato. Speravo davvero in un risultato diverso.

Parlaci di coach Andy Enfield. Che caratteristiche ha e quali insegnamenti ti ha lasciato?
Andy è un grandissimo coach; mi ha aiutato a diventare una persona migliore sia in campo che fuori. Come giocatore gli devo molto: grazie ai suoi consigli, ho potuto migliorare il mio tiro, il mio palleggio e il mio gioco sotto canestro. E, soprattutto, la mia mentalità. Il suo sistema di gioco si basa su una difesa molto aggressiva e solida che possa recuperare quanti più palloni per poi far ripartire i giocatori in attacco velocemente nei primi 10 secondi. È un gioco che lascia molta libertà di gioco e che allo stesso tempo permette ai giocatori di prendersi i canestri e guadagnare fiducia in loro stessi. Avrò sempre un ottimo ricordo di lui sia come persona che come coach: gli auguro davvero il meglio per la sua futura carriera.

Jovanovic con coach Enfield

Per i tuoi numeri, sei stato spesso paragonato a Nikola Vucevic. Questo paragone ti è pesato un po’ o è stato un motivo di orgoglio? Lo hai mai conosciuto di persona?
È un mio amico e ho grande rispetto per lui. Quando ero a USC, mi chiamavano Nik Numero 2. Abbiamo avuto dei percorsi molto simili in quanto abbiamo entrambi vestito la maglia dei Trojans per tre anni e abbiamo uno stile di gioco molto simile. Ha avuto sempre un’ottima influenza su di me e il fatto che mi paragonassero a lui è sempre stato uno stimolo in più per migliorare e sforzarmi. Non ho ancora raggiunto il suo livello e quindi continuerò a lavorare.

La tua scelta di entrare il draft con ancora un anno di college come è nata? È stata una scelta un po’ improvvisa o era un’idea che avevi già in mente?
Nel mio anno da junior stavo giocando davvero bene e ciò mi ha reso fiducioso delle mie possibilità. Erano tre anni che stavo giocando ad un livello altissimo e l’ultimo anno ho capito che, se volevo migliorare ancora, dovevo cambiare: il basket collegiale ormai mi aveva dato tutto quello che poteva in termini di gioco. Inoltre, nel 2016 la Ncaa aveva introdotto una regola che permetteva ai giocatori di “tastare il terreno” e nel caso poi ritornare al college senza perdere la eleggibilità. Era davvero il momento giusto per fare il salto in Nba.

Hai passato l’estate 2016 con alcune franchigie Nba. Cosa hai imparato da quella esperienza ai summer camp dei Pistons e dei Lakers? Che indicazioni ti hanno dato sulla tua preparazione per la NBA?
Quando ho iniziato gli allenamenti con alcune squadre Nba, i feedback che ricevevo erano tutti positivi e così ho deciso di andare avanti. Sentivo che ero davvero vicino ad essere scelto e, anche se alla fine ciò non è avvenuto, dopo la Summer League i Detroit Pistons mi hanno voluto in squadra.

Anche se per pochi mesi hai avuto un assaggio di Nba, per poi passare ai Grand Rapids Drive, la squadra di D League affiliata ai Pistons: qual è stato l’impatto con i pro e cosa ti ha colpito maggiormente?
Posso dire semplicemente che è straordinario, come del resto tutto della Nba. Per un ragazzo europeo come me, cresciuto a basket e Nba guardate in streaming, era semplicemente un sogno che diventava realtà. Il ricordo più bello che ho di quei tre mesi passati ai Pistons è legato alla prima partita di preseason: stavamo andando a fare riscaldamento e Van Gundy mi si avvicina e mi dice: “Ragazzo mio, benvenuto nella Nba”. In quel momento ricordo di aver avuto la pelle d’oca. Non mi sembrava vero essere lì! Era la dimostrazione che potevo giocare davvero a quei livelli.

 

Dopo un anno di D League, sei tornato in Europa in Serbia e quest’anno, in prestito, in Italia. È solo una parentesi e il sogno Nba è ancora valido?
All’età di 24 anni non ero ancora fisicamente pronto per quel livello. Un uomo raggiunge la sua massima maturità fisica a 27 anni ed è per questo che penso che essere tornato in Europa sia stata la giusta mossa. Qui posso crescere ancora e raggiungere quel livello fisico che mi permetterà di essere competitivo anche in Nba. Quindi sì, il sogno di giocare nella Nba è ancora valido e sto lavorando sodo per poterlo raggiungere.

Trento ha grandi ambizioni, ma la stagione non è iniziata nei migliori dei modi. Puoi farci un bilancio?
La prima parte della stagione, lo ammetto, è stato al di sotto delle nostre aspettative. Questo perché abbiamo avuto molti infortuni prima che il campionato iniziasse e quindi non c’è mai stato modo per i titolari di allenarsi insieme. Così, quando il campionato è iniziato, la nostra squadra non aveva ancora trovato quella giusta alchimia e quella unione. Cosa che invece stiamo iniziando a fare adesso e i risultati stanno iniziando a farsi vedere. Arriviamo da alcune vittorie consecutive e questa è una grande iniezione di fiducia per i prossimi appuntamenti e per la volata finale dove contiamo di arrivare a piene forze.

Come hai passato questo Natale in Italia? Qual è la tradizione in Serbia?
In realtà, non ho potuto festeggiare veramente il Natale dato che avevamo una partita il 26 a Pesaro e quindi, tra allenamenti e viaggio, non ho avuto davvero tempo se non per un pranzo con gli altri stranieri della squadra. In Serbia il Natale si festeggia il 7 gennaio, secondo l’antico calendario ortodosso, quindi sono ancora in tempo per augurare a tutti i miei amici serbi e alla mia famiglia “Srećan Božić”.

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