Arrivata al terzo anno della sua esperienza in America con Washington State, Eleonora Villa vuole iniziare a raccogliere tutto quello che ha seminato in questo percorso. Giocatrice centrale nel progetto Cougars sin dal primo anno, la guardia lombarda è ormai una veterana all’interno di una squadra giovane, nuova e internazionale che punta a mettersi in evidenza nella prossima March Madness.
L’abbiamo intervistata parlando del suo percorso prima di arrivare negli USA e del rapporto con la sorella gemella Matilde, passando dal reclutamento all’esperienza con la Nazionale Maggiore di quest’estate, appena prima dello storico bronzo ad EuroBasket.
Partiamo dal tuo viaggio: il tuo rapporto con la pallacanestro e il tuo percorso in Italia, da Lissone a Costa Masnaga.
Ho iniziato a giocare a basket grazie a mio fratello. Io e mia sorella eravamo già appassionate dello sport, che in famiglia era una passione condivisa soprattutto da mio papà e da mio fratello. Andando a vedere le loro partite, alla fine di ogni incontro entravamo in campo a palleggiare e a provare a tirare a canestro. Da lì è iniziato il nostro percorso cestistico. Ho cominciato a giocare con la squadra maschile di Lissone, finché mi è stato possibile, e successivamente sono passata a Costa Masnaga, dove ho scoperto il basket femminile. Ho trascorso circa sette anni a Costa, crescendo molto come giocatrice e come persona, fino al momento in cui è arrivato il momento di fare il salto e trasferirmi. Ho ricevuto un’offerta dal college di Washington State e, nonostante le incertezze sul mio futuro e sulle decisioni da prendere, ho deciso di buttarmi senza pensarci troppo. È stata la scelta migliore possibile.
Hai condiviso buona parte del tuo percorso con la tua gemella Matilde. Ora la carriera vi ha portato su traiettorie diverse ma raccontaci del rapporto che hai con lei e come condividete questa passione poi diventata lavoro.
Ho sempre detto che ho avuto la fortuna di poter condividere tutto con Mati. Ancora oggi, anche se siamo lontane, manteniamo questo legame: continuo a darle i miei feedback e cerco costantemente il suo punto di vista, perché sapere cosa pensa per me è molto importante. Condividere il campo con lei è stata un’esperienza bellissima, la sintonia che ho trovato giocando con lei è unica e so che difficilmente troverò qualcun altro con cui avere lo stesso legame. Abbiamo giocato insieme per tanti anni, e questo rimane uno dei miei ricordi più preziosi; mi piacerebbe moltissimo, un giorno, poter tornare a giocare di nuovo con lei. Anche se ora ci vediamo solo attraverso uno schermo, spesso a orari diversi, mi emoziona sempre vederla giocare. È qualcosa di speciale. Entrambe sappiamo sostenere l’altra e, a seconda delle situazioni, possiamo essere sia riflessive sia impulsive. Ci sopportiamo e ci completiamo a vicenda, ci scambiamo spesso i ruoli.
Ora avete condiviso ultimamente l’esperienza del documentario che è uscito su Rai Play. Come è stata questa esperienza da attrici?
Raccontarsi davanti alle telecamere non è mai semplice: all’inizio c’è sempre un po’ di imbarazzo e la sensazione di essere osservati da vicino. É stato davvero molto bello, soprattutto perché abbiamo raccontato la nostra realtà. É stato tutto molto vero e spontaneo. Si è trattato decisamente di un’esperienza speciale, qualcosa che non si vive tutti i giorni.

“Non me l’aspettavo – il basket di Matilde Villa”, il documentario RaiPlay sulla giocatrice della Reyer Venezia, sorella gemella di Matilde.
Arriviamo all’NCAA: come è nata l’idea di andarci tre anni fa?
L’opportunità di andare al college è arrivata all’improvviso. Non l’avevo mai davvero preso in considerazione, soprattutto per la questione dell’inglese: non la parlavo praticamente per nulla, quindi quel percorso mi sembrava lontano dalla mia realtà. Tutto è cambiato quando sono entrate in gioco le allenatrici di Washington State. L’estate prima del mio arrivo al college, ero impegnata con la nazionale e hanno iniziato a mostrare interesse: continuavano a chiedermi se avessi preso in considerazione la possibilità di un’esperienza negli Stati Uniti e si sono persino offerte di venire a trovarmi per presentarmi il loro programma, lo stile di gioco e gli obiettivi della squadra.
Quindi ti hanno contattato loro direttamente?
Si, mi ha colpita molto questa attenzione e il fatto che siano venute direttamente a casa mia per raccontarmi di persona che cosa significasse far parte del loro progetto. Non capita tutti i giorni che qualcuno dall’altra parte del mondo venga a spiegarti, con entusiasmo e umanità, che cosa potrebbe essere la tua nuova vita. Nel periodo in cui giocavo ancora a Costa Masnaga, hanno continuato a seguirmi con costanza, anche venendo a vedermi durante le partite. Questa comunicazione continua mi ha fatta sentire davvero desiderata, soprattutto da un punto di vista umano: mi hanno fatto capire di essere delle persone speciali, di cui ci si può fidare.
Sentire questa fiducia da parte loro mi ha aiutata a prendere la decisione.. Quando poi, ad aprile, ho visitato il campus di Washington State, sia le compagne di squadra sia l’intero ambiente mi hanno fatto sentire subito a casa. La mia decisione è arrivata quasi di conseguenza: il processo di reclutamento è stato lungo e intenso, ma ha reso Washington State la mia scelta naturale. Nonostante ci siano stati altri piccoli approcci da parte di altre realtà, ho sempre avuto solamente loro come opzione.
Come si è sviluppato il rapporto con loro e com’è andata la visita?
Sono andata lì con mio fratello e la ragazza perché sapevano la lingua. Ho trascorso due giornate al campus, ero ancora in piena stagione sportiva e dovevo presto tornare agli allenamenti. Sono stati super organizzati, sin da quando siamo arrivati: ci hanno consegnato una tabella dettagliata con tutte le attività programmate e ci hanno fatto fare un tour completo del campus, prevedendo anche degli spazi dove poterci riposare per gestire al meglio il jet lag. Abbiamo poi avuto modo di pranzare nei locali più tipici di Pullman, che ora conosco molto bene.
Una delle esperienze più belle è stata la cena a casa delle coach insieme a tutta la squadra; durante la serata ci hanno mostrato un video che ripercorreva la stagione trascorsa alla Washington State, con tutti gli obiettivi raggiunti. Poi hanno avevano organizzato una festa giochi di società e una serata karaoke, un’esperienza divertente e che mi ha messo subito a mio agio. Si sono dimostrate estremamente attente, preparandosi anche su temi che sapevano avrei trovato interessanti. Questa accoglienza premurosa mi ha fatto sentire davvero benvenuta fin dal primo istante.
Divertente, hanno creato una sorta di festa per te. Che cosa ha di tipico Pullman (la cittadina dove ha sede l’università ndr)?
Durante la visita, mi hanno portato a mangiare al Black Cypress, che è considerato il ristorante migliore di Pullman. Devo dire che, pur essendo italiana ho trovato la loro carne davvero ottima. Mi hanno accompagnata a visitare i campi di football e a fare un giro del campus universitario. La cittadina in cui mi trovo, infatti, ruota quasi interamente attorno all’università: non ci sono molte altre attrazioni al di fuori del campus, ma proprio per questo l’ambiente universitario è estremamente curato e accogliente. Tutto è pensato e costruito per la vita studentesca, rendendo l’atmosfera molto coinvolgente e piacevole.
Com’è la vita nel campus?
Ho fatto il mio primo anno in dormitorio e poi adesso invece ho un appartamento con tre mie compagne, quindi molto comodo. Siamo a dieci minuti dal campus, mi piace un sacco come tipo di vita quella del campus, sto sempre lì. La mia giornata tipica parte prestissimo: mi sveglio, faccio allenamenti, mangi, vai in classe poi di solito si esce sempre con le tue compagne o gli amici. Spesso andiamo a vedere la partita di pallavolo oppure nel weekend quella di football. Non è molto diverso dalla classifica vita del campus americano che vediamo nei film.

Il campus di Washington State a Pullman
Washington State ha vissuto in questi due anni il passaggio tra Pac 12 e WCC: come sono andate queste stagioni e come sei cresciuta.
Non posso davvero lamentarmi. Fin dal mio primo anno a Washington State, ho sempre avuto molto spazio in campo e le coach mi hanno dato una fiducia straordinaria. Questo supporto si percepisce e rappresenta esattamente ciò di cui un giocatore ha bisogno per esprimersi al meglio durante le partite. Questa fiducia mi ha aiutata enormemente a crescere come giocatrice. In passato, specialmente quando giocavo con Mati, ero spesso quella che si faceva trovare pronta per concludere l’azione o prendere il “tiro decisivo”. A Washington State, invece, ho avuto la possibilità di evolvere ancora di più, assumendo un ruolo più centrale, prendendo spesso l’iniziativa e gestendo maggiormente la palla. Essere così coinvolta mi ha dato la possibilità di assumermi più responsabilità, imparare anche dagli errori e maturare sia come atleta sia come persona.
In entrambe le stagioni che ho disputato, il mio ruolo è stato piuttosto centrale, una cosa di cui sono estremamente grata. Ogni conference presenta squadre molto diverse tra loro, alcune più fisiche, altre più tecniche, e questo offre sempre nuovi stimoli e opportunità per imparare dai diversi avversari, migliorando sotto diversi aspetti del gioco. Anche dal punto di vista della squadra, ho vissuto due stagioni molto diverse: alcune atlete si sono laureate e sono arrivate nuove compagne, creando ogni volta un gruppo diverso. Mi sono sempre trovata bene, anche grazie all’ambiente molto internazionale della squadra.
Primo anno negli States, ti ritrovi in Pac 12 che quell’anno contava tra le proprie fila giocatrici come Cameron Brink, che ora spopola in WNBA, oppure JuJu Watkins. Quell’anno avete giocato anche contro la owa di Caitlin Clark. Com’è stato passare dall’Italia a giocare contro di loro?
L’esperienza di giocare a un livello così alto, sin dal primo anno negli Stati Uniti, è stata davvero molto stimolante. All’inizio, quando mi parlavano di alcune giocatrici particolarmente forti, spesso non avevo idea di chi fossero realmente; forse, questa “ingenuità” mi ha aiutata, perché scendevo in campo senza farmi troppe pressioni o preoccupazioni, a differenza di chi già conosceva la reputazione delle avversarie. Questo approccio mi permetteva di giocare in modo più libero e spensierato. Con il tempo, naturalmente, ho imparato a conoscere tutte queste giocatrici, molte delle quali oggi giocano da professioniste, e affrontarle è stato ogni volta una sfida personale molto forte. Giocare a questo livello ti stimola a dare sempre il massimo: l’obiettivo è sempre quello di fare bene, migliorarsi e contribuire in modo significativo alla squadra.
Preparavamo le partite sulle caratteristiche delle avversarie. Le strategie difensive erano infatti adattate in base alla tipologia delle giocatrici che ci trovavamo davanti. Ricordo in particolare quando abbiamo giocato contro Cameron Brink: l’istruzione era di essere sempre pronte a raddoppiarla appena metteva palla a terra, ma senza scoprirci troppo, vista la sua grande capacità di distribuire il gioco. Tutto questo mi ha permesso di crescere molto, sia tecnicamente sia nella lettura delle varie situazioni di gioco. Sono molto felice di essere riuscita a dare un contributo importante alla squadra e di aver dimostrato – prima di tutto a me stessa – di poter reggere questo livello di competizione. Competere in una conference di altissimo livello come la Pac-12 è stato davvero entusiasmante. Fare il salto dall’Italia agli Stati Uniti, senza sapere bene cosa aspettarmi, mi ha motivata moltissimo: oggi sono orgogliosa di essere riuscita a giocare, e a esprimermi al meglio, in un contesto così prestigioso.
Quest’anno invece in WCC com’è andata?
Il nostro obiettivo principale era qualificarsi per la March Madness. Siamo arrivate fino alle semifinali del torneo dove purtroppo ci siamo fermate. Dal nostro punto di vista, però, eravamo un gruppo molto giovane e soprattutto nuovo, perché avevamo perso sei senior rispetto all’anno precedente. È stato quindi un grande cambiamento: abbiamo dovuto conoscerci meglio, adattarci alle caratteristiche e agli stili di gioco di ciascuna. Credo però che questa esperienza ci abbia dato qualcosa in più per il futuro. Anche se quest’anno non siamo riuscite a raggiungere l’obiettivo, siamo convinte che il prossimo sarà diverso: puntiamo a fare un percorso completo, vincere la conference e qualificarsi nuovamente al torneo. Nel complesso, abbiamo svolto una stagione molto positiva, con molte vittorie importanti. Certo, avremmo voluto concluderla in modo ancora più brillante, ma quella sensazione di “amaro in bocca” che ci resta adesso sarà la motivazione in più per fare meglio l’anno prossimo.
Next we've got Eleonora Villa who was selected All-WCC Second Team! 🏆
Ele is our leading scorer, finishing the regular season averaging 13.9 points per game!#GoCougs pic.twitter.com/qYGkAOGcH4
— WSU Cougar Women's 🏀 (@WSUCougarWBB) March 4, 2025
Com’è vivere l’estate in NCAA? Sei rimasta fedele a Washington State senza entrare nel portal ma molte tue compagne l’hanno fatto. Come si vive questa situazione?
Ci sono state sei senior che sono andate via. Il transfer portal e le chiamate che ricevono le giocatrici rende tutto più complesso ma anche stimolante, perché bisogna essere sempre pronte ad adattarsi e a crescere rapidamente. Alla fine è una scelta personale, scegli il portale per il bene della tua carriera. Quando decidi di entrarci, ti apri a un sacco di nuove possibilità: nuove offerte, nuove squadre, nuove avventure, hai davvero mille strade davanti a te. Però, da fuori, si vede che non è una scelta facile: mollare un college significa davvero lasciare ciò che conosci per buttarti in qualcosa di completamente nuovo e un po’ sconosciuto.
Non sai chi ti chiamerà, che proposte ti arriveranno, è una bella incognita e serve coraggio. Poi, appena entri nel portale, ti rendi conto che diventa quasi un secondo lavoro: ti arrivano mail a raffica, devi rispondere a tutti, mettere in ordine le idee, fissare videochiamate con i coach, organizzare magari anche le visite ai vari college. Ti danno la possibilità di andare lì di persona, capire com’è il posto, incontrare le squadre, vedere le strutture. È bellissimo ma anche massacrante, perché puoi trovarti una settimana su un volo per visitare un college e quella dopo da tutt’altra parte. È una cosa che fai davvero solo se senti che hai bisogno di cambiare e che vuoi metterti in gioco da un’altra parte, magari cercando la situazione giusta per te e nuove opportunità nel basket
Sei mai stata tentata dal portal?
Ammetto che qualche tentazione l’ho avuta, ma mi trovo talmente bene e ho tanta fiducia nelle mie coach e nelle mie compagne. L’idea mi ha sfiorato ma com’è arrivata è subito andata via. Mi hanno dato tutto di cui avevo bisogno e se sto crescendo come giocatrice e come persona è grazie a loro e quindi voglio rimanere qui e cercare di raggiungere i migliori obiettivi con loro. L’importante è trovare il posto migliore per la propria carriera e credo di averlo fatto.
In fase di recruiting hai mai contattato le giocatrici italiane che erano qui per avere dei feedback sull’esperienza o dei consigli? Anche adesso, magari, qualche ragazza che sta per fare questa scelta ti ha contattata?
Prima di dire di sì a Washington State, ne avevo parlato con alcune mie amiche che erano al secondo o terzo anno di college. Mi ricordo che ho scritto ad Anna Rescifina e Laura Toffali che conosco da tanto. Mentre adesso mi sono ritrovata dall’altra parte con ragazze che mi hanno scritto mentre stavano facendo la loro scelta. Ad esempio mi sono sentita con Caterina Piatti (che giocherà a Florida la prossima stagione ndr.). Mi ha fatto piacere perché mi sono ricordata l’ansia, l’insicurezza che avevo io in quel momento e ora sono diventata la persona che può tranquillizzarle.
Arriviamo al NIL, che è un argomento molto caldo in questi ultimi anni. Come si sta organizzando Washington State per pagare voi giocatrici?
Ora hanno dato anche a noi internazionali la possibilità di guadagnare, prima era un po’ un tabù. Era più complicato per noi, potevamo fare solo attività quando eravamo in Italia. Ad esempio io ho dovuto fare ultimamente un tour da guida turistica in cui mostravo la mia città natia. Poi quest’estate ho scoperto che inizieremo ad essere pagate per alcune attività. Più in là farò un altro video in cui parlerò di cosa significa essere una Cougars. É una win-win situation.

Il Beasley Coliseum, aperto nel 1973.
Quest’estate è arrivata anche la chiamata della nazionale maggiore che ha scombussolato i piani: com’è andata e com’è stato assaggiare quel gruppo prima dello storico bronzo di qualche settimana fa?
Quest’estate sono stata felicissima perché la chiamata è stata un po’ inaspettata ed è stata un’esperienza per me bellissima perché comunque vai finalmente a stare con giocatrici di primo livello, condividi il campo con loro. Mi accompagnerà per sempre il ricordo dell’esordio. É stato bellissimo stare con loro, sin da subito c’era l’idea di poter fare grandissime cose. Anche se da fuori vederle vincere la medaglia è stato bellissimo, sai di aver fatto parte di quel gruppo, di quegli allenamenti. Era qualcosa di nuovo per me stare con la Nazionale Maggiore, ero molto agitata perché era un sogno e vedere il loro approccio in allenamento è stato bello. Mi sono portata a casa tante cose che mi renderanno una giocatrice migliore. Ho potuto stare in campo e passare la palla alle giocatrici che vedevo sin da piccola.
È una nazionale a forte trazione americana: Francesca Pan, Lorela Cubaj, Cecilia Zandalasini, tra college e WNBA, molte sono passate di lì. Le conoscevi già di persona oppure è stata una scoperta anche dal punto di vista umano?
A dir la verità ero nervosa. Mi dicevo “Sono la più piccola del gruppo, chissà cosa mi fanno fare”, invece è stata la cosa più semplice del mondo, il gruppo mi ha accolto in maniera fantastica. C’erano delle giocatrici che già conoscevo, sono cresciuta con Spreafico a Costa Masnaga, abbiamo giocato insieme e io ero abituata a chiamarla Mamma Sprea. Lei mi ha aiutato tantissimo, poi avevo Matilde e le sue compagne che già avevo incontrato come Pan, Cubaj, Santucci e Fassina. Già conoscevo quindi un po’ di ragazze e poi ho completato il tutto. Avevo anisetta per la prima esperienza, invece niente alla fine.
Tornando in America, stiamo vivendo una golden age del basket femminile. Prima Sabrina Ionescu, poi Paige Bueckers e Caitlin Clark. Com’è viverla dagli Stati Uniti?
Per me Caitlin Clark ha letteralmente cambiato le sorti del basket femminile. Tutti i record che ha raggiunto hanno aiutato il basket femminile a ottenere un audience molto più elevata. Le persone hanno iniziato ad interessarsi molto di più e, anche se vai a vedere la visibilità che ha raggiunto la finale che ha giocato lei al college, non c’è mai stato quel numero di persone a vedere una partita. Sta facendo una rivoluzione portando dei numeri altissimi. Sono andata a giocare ad Iowa contro di lei e il palazzetto era strapieno, una cosa che non è mai successo e giocare sotto quei riflettori con così tante persone che riempiono l’arena è bellissimo.
Come si è organizzata Washington State in questa off-season? Siete tante International e al momento non riuscite tutte ad essere nel campus: come si lavora a distanza?
Con le coach ci teniamo sempre in contattato, ogni fine settimana arriva sempre un messaggio da parte loro. Prima di lasciare il campus hanno lasciato a tutte noi un librone dove hanno messo tutti i workout che puoi fare: dai pesi, alle sessioni di tiro, agli allenamenti in palestra. Giorno dopo giorno, tutti gli esercizi da fare personalizzati per te. Ad esempio, sapevano che io avevo in programma una settimana di vacanza e loro mi avevano preparato da hoc per quei giorni delle sessioni di conditioning. Sono cose che mi piacciono perché spendono tanto del loro tempo affinché tu possa migliorare. L’estate è quel momento in cui migliori individualmente e puoi lavorare su di te e anche se a distanza loro ci sono.
Ora sei in Italia, quando torni in America?
Sarei dovuta tornare il 15 luglio, ma con tutta la faccenda dei visti abbiamo dovuto ritardare la partenza e tornerò a metà agosto. Siamo tante internazionali, tutte con fusi orari diversi e da parte diversi del mondo. C’è chi è già lì, chi torna come me ad agosto mentre le americane sono già al campus. Sarà bello tornare e rivedersi tutte insieme.
Ultima domanda: sei al terzo anno in America, ci sono obiettivi importanti per la prossima stagione ma facciamo un salto nel futuro: sei all’ultima partita con Washington State tra due anni, sarai contenta se sarà successo cosa?
Sicuramente il mio obiettivo principale è giocare la March Madness e andare più in là possibile nel Torneo. É anche l’obiettivo che voglio avere per la prossima stagione, è quello che ho sempre voluto sin dal mio primo freshman year, ma finora non ci siamo mai riuscite. Ho grandi aspettative per quest’anno.