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Dietro le quinte: Stefanini e Donadio

Gabriele Stefanini Lorenzo Donadio
Autore: Riccardo De Angelis
Data: 30 Nov, 2019

Si dice sempre che sia il campo l’ultimo a parlare. Ed è vero. Ci sono però piccole cose che partono da più lontano e che possono sfuggire dall’esterno. Cose che poi magari fanno la differenza. Di recente, abbiamo avuto occasione d’incontrare due giovani italiani negli USA, Gabriele Stefanini e Lorenzo Donadio, e benché non fossero in campo (per motivi diversissimi) al momento d’incrociare i nostri passi coi loro, abbiamo potuto vedere due o tre cose che vale la pena raccontare.

Stefanini, quanta pazienza

C’è un parquet sonnacchioso e un ragazzo che si mangia il campo con lo sguardo. Il Levien Gymnasium, piccola casa di Columbia a Manhattan, non è un posto da riflettori. Ti guardi a sinistra, ti guardi a destra e ti chiedi cosa ci facciano lì quegli spettatori così disinteressati (l’unica a farsi sentire, è una tifosa in trasferta che lancia gridolini agghiaccianti quando i Lions tirano i liberi). Ci manca solo che qualcuno tiri fuori un lenzuolo da picnic e una bottiglia di vino (o champagne, che questa è gente coi soldi). L’atmosfera lì non è delle più calde, specie quando l’ospite di turno è una mid-major sgangherata dov’è complicato scorgere un giocatore degno di questo nome. Binghamton è pessima, eppure i padroni di casa faticano a scrollarsela di dosso.

Gabriele Stefanini occupa l’ultimo angolo della panchina e porta un tutore che, per lui, dev’essere come la palla al piede del carcerato. Ha l’aria di uno che vorrebbe strapparselo di dosso, quell’aggeggio, non tanto per tirarlo addosso a qualcuno (o forse sì, chi lo sa) ma per poter finalmente andare in campo e mostrare agli altri come si fa. Quell’infortunio al piede sinistro, però, non cede a compromessi di sorta. Alla fine Columbia vince, Gabriele può tirare un sospiro e festeggiare con gli altri. Quel fuoco dentro che lo anima però è inestinguibile.

È la prima volta che Stefanini deve fare i conti con un infortunio del genere – uno capacissimo di fargli saltare la stagione – e lui che vive per la pallacanestro, che smania di competere, fa fatica a contenersi. Ogni volta che ne ha occasione, ci dice, raccoglie il pallone e tira (in situazioni poco ortodosse, ovviamente, che non tocchino gli arti inferiori). Non ci sa stare senza la retina che fa swish. L’inattività gli sta addosso come una camicia di forza e, quando ne parla, esprime il concetto con un’espressività inequivocabile. Un sospiro vale più di mille parole.

Gabe – o Gabry, per quelli che lo conoscono da più tempo – è anche capace di mettersi a freno da solo. Lo sa che deve avere pazienza con quel legamento. Non si deprime e, nonostante tutto, vuole continuare a stare al centro delle cose. Il termine “leader” – spesso affibbiato con troppa facilità dalla gente del college basketball – gli sta a pennello. Sul campo l’ha già dimostrato, quindi inutile tornarci su. Fuori, Stefanini non ha solo partecipazione emotiva ma anche attenzione per le piccole cose, oltre al portamento sicuro di chi sa cosa vale. A sventolare asciugamani (figurativamente) sono buoni tutti: lui ha la sensibilità necessaria per andare dal compagno X a dire la parola giusta, nel modo giusto e al momento giusto. Durante il riscaldamento, nel shootaround tra un tempo e l’altro, nei timeout (beh lì magari un po’ meno, è soprattutto il coach a parlare). Anche se rischia di fare lo spettatore per tutta la stagione, è sempre presente con la testa e col cuore, prima e durante la partita.

Dio solo sa che cosa combinerà Stefanini quando tornerà in campo e potrà sprigionare tutta quella energia accumulata. Più che Gabe dovremo ribattezzarlo Dracarys, probabilmente.

 

Donadio, da un altro mondo

Lorenzo Donadio ha una piccola fama che lo precede, cioè quella di essere un ragazzo adorato dai coach che lo hanno avuto fra le mani. Il motivo è evidente già quando lo si osserva in campo, dalla quantità e qualità delle cose che fa per portare il suo contributo. Più da vicino, lo si capisce ancora meglio. “Non sembra romano”, ci aveva detto una volta un allenatore che lo conosce molto bene. In effetti Donadio è quanto ci sia di più lontano dai modi caciaroni legati a quel cliché. Non ha nemmeno un accento marcato, o anche solo distinguibile: probabilmente si è smussato a causa della lontananza da casa.

Carattere amabilissimo e rilassato, verrebbe da dire “zen”. Fa strano che un ragazzo di 18 anni abbia, sotto certi aspetti, un fare già così da adulto (e che poi appartiene pure a pochi adulti). Le maniere equilibrate e discrete lo accompagnano anche nel modo di porsi in squadra. A Boys’ Latin, high school che è un vero gioiellino a nord di Baltimora, tanta gente al posto suo non esiterebbe a marcare il territorio in maniera un po’ gradassa. Lui invece preferisce affermare la sua presenza in silenzio, coi fatti.

La squadra quest’anno è estremamente small (composta esclusivamente da esterni) e anche inesperta (solo tre senior). Donadio, 193 centimetri d’altezza e una corporatura sempre più definita, sembra quasi un uomo in mezzo ai bambini. L’impressione è ulteriormente accentuata dal suo modo di stare in campo, da ragazzo che ha alle spalle una notevole esperienza giovanile dal nostro lato dell’Atlantico, fra svariati tornei con la Stella Azzurra e due Europei con le Nazionali under.

In allenamento, si vede proprio che viene da un altro mondo cestistico. E persino lui, così zen, a un certo punto si fa scappare uno sbuffo rassegnato davanti a un compagno che fatica a capire cose che lui, di sicuro, ripete e ripete da anni. A Boys’ Latin la tattica sta praticamente a zero. Rispetto alla routine che contraddistingue le squadre dei coetanei italiani, c’è un che di caotico nell’immagine complessiva data dal tran-tran di quella palestra. Di casuale però non c’è nulla. Coach Cliff Rees, tipo cordiale nella sua rigidità che sa di militare (infatti giocava per Navy con un certo David Robinson), si preoccupa di gettare le basi per alcuni meccanismi difensivi e nel fornire qualche coordinata alle letture offensive dei ragazzi. Grandissima parte delle oltre due ore di allenamento è però improntata su altri aspetti. Ovvero: tiro, tiro e anche un po’ di tiro. D’altronde, se hai solo guardie, cosa ti vuoi inventare?

Ecco, una situazione del genere, probabilmente va bene a Lorenzo. Perché di pregi ne ha molti (versatilità in entrambe le metà campo, gioco in uno-contro-uno, coordinazione al ferro e negli arresti…) ma il jumper dalla distanza non fa parte della lista (in genere, si ferma al 30% dall’arco). Tirare tanto, con un coach che sembra soffermarsi sui dettagli, male non gli farà.

Intanto, dopo che lo abbiamo incontrato, Donadio ha giocato la sua prima gara stagionale: la mira non l’ha tradito e si è fatto notare con un losing effort contro Goretti (64-61) da 21 punti (9/17 dal campo), 9 rimbalzi, 3 assist, 2 recuperi e 2 stoppate. Che sia di buon auspicio?

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