Vincere il CBI al primo anno e portare una mid major alle Final Four al secondo, ad appena 34 anni, sembra essere l’inizio di carriera perfetto per uno che diventerà un grande allenatore. Invece questi rimangono i punti più alti della carriera decennale di Shaka Smart. Uno definito enfant prodige, tenuto d’occhio dalla Nba (che poi ha scelto il suo rivale Brad Stevens), trasferitosi a Texas per provare a vincere il titolo ma che ora deve ringraziare la sospensione della stagione se ha ancora il posto ad Austin. Come ha fatto Smart a passare da essere l’allenatore più sexy d’America ad uno qualunque?
Un rivoluzionario a Richmond
Il nome l’ha scelto il padre ed è in onore di Shaka Zulu, un eroe di guerra sudafricano che fondò l’impero Zulu e rivoluzionò le tecniche di combattimento, disponendo le milizie a “testa di bufalo”. Anche Smart ha rivoluzionato, per un periodo, il modo di difendere in Ncaa. Rick Pitino-Billy Donovan-Shaka Smart, è stata la triade della difesa pressing in Division I: se Donovan è stato allievo di Pitino a Kentucky, Smart lo è stato di Donovan a Florida. Per un anno soltanto perché poi, a 32 anni, è arrivata l’offerta da capo allenatore a VCU.
Tutti gli allenatori che lo hanno avuto come assistente l’hanno definito uno che pensa “outside the box”, un tipo coraggioso che ha preferito Kenyon College, Division III, ad Harvard e Yale, solo perché aveva un posto nella squadra di basket. Da lì, parte la sua storia: sei anni a VCU (tre in Colonial e tre in Atlantic 10) dal 2009 al 2015, cinque viaggi al torneo, una Final Four, persa contro l’altro enfant prodige Stevens, e una vittoria in CBI, il terzo torneo dell’off season per importanza. Dal 2011 al 2014 primo nella nazione per To% e Stl%, ritmo sempre alto e una delle difese migliori e più pazze della nazione.
La rivoluzione difensiva di Smart era chiamata Havoc: il suo obiettivo era non far entrare gli avversari nella metà campo difensiva di Vcu. Pressing ossessivo sulla rimessa, trappole, raddoppi, cinque giocatori dinamici, versatili, intelligenti e spericolati. In attacco, ingressi veloci nei giochi e tante triple (con una divisione dei tiri molto simile a quella degli odierni Houston Rockets). VCU si abbatteva con una furia pazzesca in campo, come i Figli della Guerra in Mad Max, una furia che spesso si rivelava controproducente e che permetteva canestri facili agli avversari.
Cinque allenamenti da Navy Seals in off-season e allenamenti competitivi in stagione in cui i perdenti correvano per venti minuti: così Shaka Smart, che correva e si allenava con loro, scolpiva il corpo dei propri giocatori. Sei anni in cui Shaka Smart è diventato Re a Richmond, grazie alla sua rivoluzione, arrivando a rifiutare anche squadre come UCLA, Georgetown e Illinois. Ma anche i re possono cambiare idea.
Vedi Texas e poi muori
Il 74% di vittorie a VCU non si è mai convertito in una stagione realmente dominante: non ha mai vinto una regular season, ha sempre perso almeno sette partite e, dopo la F4, ogni anno ci si aspettava un nuovo exploit dei Rams e ogni anno le attese venivano smentite. allontanandosi da quell’exploit la domanda sorgeva spontanea: non è che quella Final Four è stata un eccezionale episodio dovuto ad una serie di coincidenze astrali?
D’altronde un gioco così estremo può portarti a battere Kansas alle Elite Eight ma anche a perdere dodici partite, tra cui alcune contro Richmond, UAB e Georgia State, nel giro dello stesso anno. A posteriori, i sospetti erano fondati, ma nessuno pensava che nel 2015 Texas, che veniva da 16 apparizioni al torneo in 17 anni, avesse fatto una scelta sbagliata nel mandare a casa Rick Barnes (considerato sorpassato) per prendere il rampante Smart. Il problema è che da quando Smart si è seduto sulla panchina dei Longhorns, la sua ex VCU e la Tennessee allenata da Barnes sono andate più volte al torneo di Texas, che non è mai riuscita ad andare oltre ad un quarto posto in Big 12 (al primo anno, con la squadra fatta da Barnes).
Arrivato ad Austin, Smart ha abiurato l’Havoc system: la percentuale di possessi giocati con la difesa a tutto campo è infatti passata dal 16% del primo anno al 6% della scorsa stagione, dati molto lontani dai picchi di VCU (32% nel biennio ’12-’14). La difesa, però, non è mai stata un problema, anzi è sempre stata fra le Top 30 della nazione. La scelta e lo sviluppo dei giocatori sono stati la zavorra che ha soffocato le ambizioni di Smart e si sono ripercosse su un pessimo attacco,. Il recruiting è sempre stato di buonissimo livello, soprattutto tra i lunghi (Jarrett Allen, Jaxson Hayes e Mo Bamba sono la dimostrazione), ma le caratteristiche dei giocatori hanno spesso cozzato tra di loro: si trattava di giocatori energici, versatili e atletici ma con poco tiro, poche letture di alta qualità e che tendevano ad intasare l’area.
I due playmaker che ha avuto, Kerwin Roach e Matt Coleman III, nel corso degli anni sono rimasti sempre uguali a se stessi, anche perché il contesto intorno a loro non migliorava. Ritmo tra i più lenti della nazione, nonostante avesse atleti e lunghi capaci di correre il campo benissimo, tra le peggiori squadre nel tiro da tre negli ultimi cinque anni e gestione del pallone sempre rivedibile. L’attacco ha avuto un grande picco nella stagione 2018-19, quando in campo c’era l’unico giocatore dall’alto IQ passato a Texas sotto la gestione Smart, ovvero Dylan Osetkowski, e perché contemporaneamente sia Roach che Coleman erano in campo. Per il resto, o la difesa creava situazioni o l’attacco moriva. Va detto che perdere Andrew Jones per due anni a causa della leucemia non era prevedibile e la questione infortuni ha sempre avuto un ruolo nelle annate dei Longhorns.
Questione ambientale e futuro
La Big 12 degli ultimi anni è stata come l’Hunger Games No.75, ovvero una lotta all’ultimo sangue tra i più forti, e sicuramente Texas è rimasta ingolfata in questo tritacarne. Il punto più basso è stato toccato il 15 febbraio di quest’anno con il -31 in trasferta vs Iowa State e nessuno pensava di rivedere più Smart sulla panchina dei Longhorns. Poi cinque vittorie nelle ultime sei, il recordo di 9-9 e il terzo posto in Big 12 in coabitazione con altre tre squadre, oltre allo scoppio del coronavirus hanno salvato la panchina a Smart, che però resta sotto pressione.
Anche l’ambiente ha giocato un fattore non indifferente nella stagnazione di Texas. Già dopo la disastrosa seconda stagione, i giornali attorno al campus chiedevano la testa di Smart, reo di esser finito ultimo in Big 12. Da lì in avanti, ogni anno, dopo ogni sconfitta, c’era chi chiedeva che Smart fosse cacciato perché non riusciva a mantenere gli alti standard richiesti dalla fan base molto esigente dei Longhorns. Inoltre, l’esplosione di Texas Tech e Baylor, autrici di due stagioni favolose negli ultimi due anni, hanno fatto perdere anche l’egemonia nel proprio stato.
Insomma, Smart è stato salvato da un ultimo guizzo dei suoi e dalla pandemia, ma l’anno prossimo sa molto di ultima chance. Il coach avrà a disposizione tutta la squadra dell’anno scorso con Greg Brown, l’ennesimo centro 5 stelle da sviluppare e mandare al Draft, che ha rifiutato la G-League per passare una stagione da protagonista con il college di casa. Smart è passato da rivoluzionario a moderato, ma forse tornare a rivoluzionare, come ha fatto nelle ultime sei partite dove si è rivista la difesa a tutto campo, potrebbe essere il modo migliore per rilanciarsi.