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Mike Daum, dal trattore alla Spagna

Mike Daum - Obradoiro
Autore: Isabella Agostinelli
Data: 29 Feb, 2020

Avete presente quelle storie tipicamente americane del ragazzo di campagna che raggiunge grandi traguardi dopo aver affrontato tante difficoltà grazie alla sua forza di volontà? La storia di Mike Daum potrebbe benissimo rientrare in questa categoria. Nato e cresciuto in Nebraska, lontano dai riflettori delle grandi scuole e dei tornei estivi più blasonati, Mike è diventato la stella di South Dakota State. Il centro statunitense di 206 cm, oggi in forza al Monbus Obradoiro in Galizia (Spagna), è uno dei migliori “stretch four” che la Ncaa abbia conosciuto.

Oltre ad aver tagliato il traguardo dei 3.000 punti e 1.000 rimbalzi (il terzo a riuscirci nella storia del college basket dopo Lionel Simmons e Doug McDermott), è un vero cecchino da tre punti (più di 260 triple in totale al college col 40% dall’arco). Ecco cosa ci ha raccontato tra ricordi, risate e anche un miracolo.

Ciao Mike, o dovrei chiamarti “The Dauminator”?
Sì, grazie, sono The Dauminator! [scherza]

Come è nato il soprannome?
Sinceramente non ricordo. So solo che mi accompagna da quando ero piccolo e da lì non mi ha più lasciato. Diciamo che il mio cognome si prestava benissimo al gioco di parole con “dominator”. Mi piace davvero tanto! (basta dare un’occhiata al suo profilo Instagram per averne una prova, ndr). Quando ero piccolo addirittura mi faceva sentire fighissimo!

Mike Daum

Mike Daum

Ti si addice visto che hai “dominato” anche il sondaggio tra i tifosi dell’Obradoiro che ti hanno scelto come star di gennaio. Qual è il segreto del tuo successo? 
Davvero nessun segreto! [risponde divertito e quasi in imbarazzo] Sono solo un ragazzo che ama stare in mezzo alle persone e che cerca in tutti i modi di far sentire tutti a proprio agio: i miei amici, i miei compagni, la mia famiglia e naturalmente i tifosi. Sono un po’ un intrattenitore!

Passiamo al basket. Però prima rispondi sinceramente a questa domanda: quante possibilità c’erano che un ragazzo di Kimball, Nebraska, paesino di campagna, fuori da ogni radar del basket, potesse arrivare a giocare da protagonista nella Division 1 e persino ambire alla NBA?
Davvero poche! [risponde secco per poi scoppiare a ridere] A parte gli scherzi, prima di arrivare a giocare nel circuito AAU non avevo davvero molte speranze, ma se la mia storia può insegnare qualcosa a qualcuno è che il duro lavoro e la giusta etica sportiva possono portare davvero molto in là e realizzare i sogni. Più che sorprendermi, i risvolti della mia carriera hanno ripagato i tanti sforzi fatti.

Un po’ ce l’avevi nel dna:  tua madre, Michele Hoppes, è stata una campionessa di basket con Wyoming . Raccontaci i tuoi primi passi nel basket al suo fianco e come ti ha insegnato quel “colpo di frusta del polso” che è il tuo marchio di fabbrica.
Mia madre è stata sempre un modello per me. I suoi insegnamenti vanno al di là della tecnica! Non saprei contare quante ore ha passato con me in palestra ad allenarmi, a parlarmi o quanti chilometri ha guidato per portarmi alle gare o agli allenamenti. Avendo giocato lei stessa a basket mi ha aiutato in tutte le fasi della mia carriera: sa benissimo cosa vuol dire passare dal college basket al professionismo o come ci si deve gestire per giocare al meglio. Ma devo dire che anche mio padre, giocatore di football, ha avuto un ruolo centrale nella mia formazione sportiva e anche lui ha fatto tanti sacrifici per me.

Mike Daum da piccolo con la madre

Mike Daum da piccolo con la madre

Tua madre ti faceva tirare le macchinine che dovevano essere tirate perfettamente dritte per scontrarsi, con la destra e con la sinistra. Ti ricordi quei giochi?
E chi se li dimentica? [risponde scherzando] Facevamo delle cose pazzesche: ogni gioco era adatto a migliorare qualche aspetto utile per giocare a basket, sia che si trattasse della mira o della velocità di mano…mia madre ne inventava sempre una!

Com’è il vostro rapporto?  Ci sono stati dei momenti in cui hai sentito un po’ di pressione addosso?
Il rapporto tra madre e figlio non è mai semplice e come per tutti ci sono stati degli alti e bassi, soprattutto i primi anni di high school. Ma la pressione da parte sua o di mio padre non è mai stata troppa. Durante i nostri allenamenti, lei mi chiedeva spesso se volevamo continuare o fermarci, ma ero io che le chiedevo di andare avanti. Poteva essere dura con me ma solo perché sapeva che io potevo sopportarlo. Mi spronava a fare del mio meglio, questo è sicuro, ma non ha mai superato i limiti.

Ti è anche capitato di esagerare, come all’Action X (un camp per sportivi).
É stato un momento difficile, non posso negarlo, ma mi ha portato a rivedere le mie priorità e sicuramente mi ha aiutato ad apprezzare di più la mia vita. Mi ero iscritto per migliorare la mia velocità di gambe e come al solito avevo messo anima e corpo in quello che facevo. Peccato che l’elastico che usavo per fare gli esercizi di resistenza ha finito per lesionarmi gli organi interni. Avrei dovuto operarmi, ma con un vero e proprio miracolo (non saprei come chiamarlo altrimenti) le lesioni alla milza si sono cicatrizzate da sole e due mesi e mezzo dopo ero nuovamente in campo.

Inizialmente vari college in Oregon avevano mostrato interesse nei tuoi confronti ma, dopo le performance non proprio positive con Fort Collins in AAU, l’interesse è scemato. Hai mai pensato “non ce la posso fare ad entrare in Division 1” o perso la fiducia nei tuo mezzi?
Sinceramente no! Ero molto sicuro del percorso che volevo intraprendere nella mia vita. Sapevo che non sarebbe stato facile ma, come si dice, le buone cose richiedono tempo per potersi realizzare. E io dalla mia parte avevo la forza di volontà e un’etica del lavoro ineccepibile.

E finalmente è arrivato il tuo momento al torneo di Las Vegas dove due coach di South Dakota State ti hanno visto. Raccontaci di quelle 12 triple. Che ricordi hai?
Quella partita è stata letteralmente folle. All’inizio ero spaesatissimo. Immagina: arrivo in campo e mi trovo davanti come avversario Tacko Fall (adesso ai Boston Celtics). Non avevo mai visto un giocatore della sua stazza. Tutto mi sembrava davvero strano, ma nel momento in cui la prima palla è entrata, ho capito che quella sera poteva davvero essere la mia sera. Mi sono rilassato e il resto è storia!

Grazie a quella performance ti hanno offerto una borsa di studio a South Dakota State. Ma è vero che quando hai ricevuto la chiamata da coach Nagy eri sul tuo trattore? Cosa hai pensato e come hai reagito?
É vero! [risponde mentre una grande risata gli soffoca le parole] Eravamo in piena mietitura e io mi trovavo sul trattore rosso di famiglia. Ho preso il cellulare e non potevo davvero credere alle mie orecchie nel sentire coach Nagy parlare di una borsa di studio. Non mi dimenticherò mai quel momento.

L’esordio in Division I tuttavia non è stato dei migliori: ti hanno messo fuori squadra (redshirt) e quindi per un anno hai svolto solo allenamenti. Come hai reagito a quella notizia e dove hai trovato le motivazioni per lavorare sodo e mettere su ben 7 kg di muscoli?
Ero a pezzi anche perché gli altri due ragazzi che erano stati scelti con me erano riusciti subito a ritagliarsi il loro spazio in squadra, mentre io ero completamente fuori dai giochi. Devo essere sincero però: all’epoca non ero davvero pronto per la Division I. Ero fuori forma e con pochi muscoli. Ma è quando tocchi il fondo che reagisci. Così mi sono focalizzato sul mio corpo e ho sfruttato quell’anno per migliorare ancora dal punto di vista fisico.

Quanto ha voluto dire per te l’arrivo di Cody Larson in squadra e il tuo lavoro con lui?
Temo che neppure lui sappia davvero quanto mi ha aiutato! Appena arrivato l’ho visto un po’ come un nemico ma poi ci siamo messi a lavorare insieme ed è stato grazie a lui che ho fatto un vero salto di qualità. Non me ne lasciava passare una: oltre ad essere un centro molto fisico, era veloce e sapeva tirare. Per riuscire a stare al suo passo ho dovuto migliorare! Non ti dico quanto è stata dura per il mio ego e quanto orgoglio ho dovuto mettere da parte, ma alla fine non posso che ringraziarlo.

La vera svolta nella tua carriera è stata però un’altra: impersonare JJ Avila. Spiegaci meglio.
Anche se me ne sono reso conto solo dopo, è stato davvero quel momento a dare una svolta vera alla mia carriera a South Dakota State. Nel mio anno da redshirt ci stavamo preparando per il match del NIT contro Colorado State e durante gli allenamenti il coach per allenare gli altri mi ha chiesto di simulare il gioco di Avila, un centro che ama tirare, palleggiare e non disdegna il gioco in area. In altre parole, mi avevano dato il via libera per tirare, entrare, giocare sotto canestro e gestire i palloni. E io ho fatto tutto! È così che il mio allenatore e i miei compagni si sono accorti di quello che sapevo fare, ma che ancora non ero riuscito a mostrare.

Poi e arrivato coach TJ Ofzelberg. È stato lui che ha incentrato il gioco su di te dandoti molto spazio e ti ha messo nelle migliori condizioni per giocare. Che ricordi hai di lui e come ti ha aiutato a diventare la stella della tua squadra? C’è un insegnamento che porterai sempre con te?
Ammetto che è stato un cambio radicale, ma molto positivo. Coach TJ è uno di quegli allenatori che si interessa davvero ai suoi giocatori e che passa tantissimo tempo in campo con loro. Ha una visione semplice del gioco: veloce e con tanti tiri. Ha avuto fiducia in me e ha saputo valorizzare i miei punti di forza. Ma lo ha saputo fare anche con tutti gli altri. Inoltre, è un allenatore che ama rimanere in contatto con i suoi ex giocatori: ci sentiamo ogni settimana e per me questo è un supporto molto grande!

3,000 punti e 1,000 rimbalzi: cosa si prova a raggiungere un record di questa portata? Quanto contano questi riconoscimenti (assieme a quelli per l’MVP e come Player of the Year della Summit League per 3 anni consecutivi) per un giocatore?
In realtà più passa il tempo e meno contano a livello personale: penso che sia più importante rimanere umili e continuare a lavorare giorno dopo giorno. Quei riconoscimenti e quei numeri hanno un valore solo perché rendono orgogliose le persone che sono intorno a me e che hanno fatto tanti sacrifici affinché io potessi realizzare i miei sogni.

Numeri che hanno sicuramente aiutato i Jackrabbits a vincere la conference e raggiungere il Torneo per ben tre volte. Tuttavia vi siete fermati sempre al primo round. Qual è stata la sconfitta più bruciante? Maryland, Gonzaga o Ohio State?
Direi sicuramente quella contro Maryland: avevamo lavorato tanto ed eravamo pronti per quel match. Ci siamo andati davvero vicini (i Terrapins si sono imposti per 79 a 74, ndr). Giocarsi il torneo però è sempre una grande emozione e mi sono davvero goduto ogni momento.

 

Sai tirare da tre, giocare in area, stare sotto canestro e sei stato uno dei migliori “stretch four” della Ncaa. Tuttavia non hai ancora avuto fortuna con la NBA. Cosa ti manca ancora per raggiungere il tuo obiettivo?
La difesa. Ma non solo in prospettiva NBA: migliorare le mie abilità difensive è la chiave per diventare un buon giocatore a livello professionistico in qualsiasi lega.

Ho letto che  Dirk Nowitzki è il tuo idolo e che quando eri piccolo cercavi di emulare il suo stile di gioco. A che punto siamo?
Ti racconto una storia [abbassa la voce come se fosse un segreto]. Quando ero piccolo ci provavo sempre e mia madre si arrabbiava tantissimo perché sprecavo un sacco di azioni buone. Dai, diciamo che sono migliorato e nessuno mi sgrida più quando lo faccio!

 

Parliamo un po’ della tua esperienza in Spagna con la Monbus Obradoiro. Si dice che hai chiesto consiglio anche a Matt Thomas prima di firmare. Cosa ti ha detto e cosa ti ha consigliato?
Il mio agente mi aveva dato diverse opzioni tra cui c’era anche Obradoiro qui in Spagna. Sapevo che la Liga ACB era un campionato molto competitivo, ma non credevo così tanto. È molto sottovalutata: qui militano molti giocatori con un passato NBA e molti altri che potrebbero tranquillamente giocarci. È un campionato che mi sta permettendo di confrontarmi con campioni e di migliorare partita dopo partita. Prima di firmare ho chiesto informazioni a Matt che qui aveva giocato per due stagioni; mi ha convinto non appena ha menzionato la cura e l’attenzione con le quali il club tratta i suoi atleti, aspetto che per me è molto importante in quanto solo in un ambiente serio e determinato è possibile crescere.

Magari speri che ripercorrere la sua strada ti potrebbe portare fortuna dato che ora Thomas è ai Toronto Raptors?
[Ride] Beh, ognuno ha il suo percorso, un po’ ci spero!

 

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