Ci sono articoli che, a rileggerli col senno di poi, fanno sorridere. In un pezzo del luglio 2017, Myron Medcalf di Espn si divertiva a comporre la squadra perfetta per la stagione seguente. Lasciamo stare i giocatori (se vi volete divertire qui c’è la versione integrale), ma lo staff di allenatori prevedeva come head coach Rick Pitino che, poche settimane dopo, avrebbe visto declinare irrimediabilmente la sua carriera, e come assistenti John Calipari, John Beilein e infine Jay Wright.
Beilein veniva inserito prima di Wright, che pure era reduce da un titolo Ncaa vinto solo due anni prima. Ecco la descrizione/motivazione. “Beilein is the most underrated coach in the country. He knows the keys to developing raw talent, though. Just ask the six first-round picks he has produced during his time at Michigan. He’ll help this roster reach its potential, too“.
Un allenatore che ti porta in NBA
Ecco, John Beilein, che peraltro è stato votato dai colleghi anche il coach “cleanest”, cioè più corretto, ha questa dote che incredibilmente viene messa in risalto meno di quanto si pensi: trasforma i giocatori. Al punto che quelli che passano dalla sua “scuola”, da semplici atleti come tanti, diventano materiale che intriga gli scout NBA.
La classe di talenti provenienti dalla high school dell’anno 2004 vedeva al primo posto Dwight Howard, che scelse (ai tempi si poteva) di passare direttamente dalla HS alla NBA. Altri nomi? Shaun Livingston, Al Jefferson o Rudy Gay. Nei primi 150 prospetti non avreste trovato Joe Alexander, reclutato però da Beilein quando era coach di West Virginia. Il risultato del trattamento-Beilein non furono solo 3 stagioni rispettivamente da 24-22-27 vittorie per la squadra, con due viaggi al Torneo Ncaa fermatisi alle Elite 8 e alle Sweet 16, ma anche che Alexander venne scelto alla numero 8 del primo giro del draft NBA, la chiamata più alta per un Mountaineers dai tempi di Rod Thorn nel 1963 (seconda scelta assoluta).
Lui ai suoi giocatori fa qualcosa dentro. È come se riuscisse a soffiargli nell’anima il fuoco sacro del gioco. Il meglio, ovviamente, lo ha fatto vedere a Michigan, programma che era finito in disgrazia dopo l’era Steve Fisher (quella dei Fab Five di Chris Webber) e che lui ha rivoltato come un calzino. Gli è bastato un anno di assestamento (10 vittorie) e dal seguente ha portato la squadra al Torneo Ncaa 8 anni su 10 con due finali per il titolo.
Ma vediamo i giocatori. Prospetti 2009, prima PG del lotto un certo John Wall, mentre al 14esimo posto c’era il semi-sconosciuto Darius Morris (100esimo prospetto per Espn), portato da Michigan a diventare primo assistman della Big Ten. Scelto al secondo giro dai Los Angeles Lakers. L’anno dopo Beilein pesca Tim Hardaway Jr (93esimo Espn) quello seguente Trey Burke (84esimo Espn). Per arrivare ai primi reclutamenti importanti bisogna attendere la classe 2012 quando i Wolverines vengono preferiti da Glenn Robinson III (18 Espn) e da Mitch McGary (27 Espn), ma Beilein pesca anche Nik Stauskas (76 Espn) e lo sconosciuto Caris LeVert.
Andare avanti con l’elenco sarebbe noioso e il concetto ormai è chiaro: li ha portati tutti in NBA e la sensazione è che, una volta usciti da Michigan, quasi tutti gli atleti citati siano tornati a essere come venivano considerati in uscita dal college, ossia discreti/buoni giocatori con alcune caratteristiche interessanti. Non molto di più. Nel sistema dei Wolverines invece sembravano mezzi fenomeni.
“Lascia parlare la palla”
Si chiama “Let the ball talk“. Lui, coach Beilein, definisce così il suo stile di gioco. In un bell’articolo del 2012 del Michigan Daily lo stesso allenatore descriveva la genesi del suo approccio alla pallacanestro. L’attacco prevede un solo lungo di ruolo e poi è basato su movimento di palla, letture e tagli. Un sistema ormai unico e (quasi) inimitabile che nasce dalla contaminazione di più stili e principi. Beilein è partito dalla Flex offense, l’ha modificata, poi è rimasto incantato dal gioco dell’università di Washington, allenata da Andy Russo (quello di Karl Malone a Louisiana Tech) e ha così varato la two-guard offense.
Pare che Beilein sia così orgoglioso del suo sistema che a chiunque gli chieda spiegazioni fornisca risposte lunghe e dettagliate e la sensazione (confermata dalla moglie Kathleen) è che il coach pensi al basket da quando ha iniziato a parlare. Lui definisce il suo attacco “un caos organizzato”, che è una versione suggestiva e creativa di quello che viene spesso chiamato “attacco di letture”. Certo, lui l’ha affinato, e ha anche creato una terminologia specifica che quindi rappresenta un codice comunicativo facile tra lui e i suoi giocatori e incomprensibile per gli altri. Nella magica stagione 2013 (quella della prima finale Ncaa persa contro Louisville) Trey Burke nelle interviste nel corso della stagione diceva sorridente “we’re just playng, we let the ball talk“. Facile no? Basta far parlare la palla.
Maestro di se stesso
In realtà non è così facile. La chimica che crea l’attuale allenatore di Michigan è davvero unica e, se vi chiedete da chi ha imparato, la risposta è “da nessuno”. O quantomeno, non da un altro allenatore. Una delle caratteristiche di Beilein, che è tra i 6 coach in attività ad aver vinto più di 700 partite in carriera, è che ha sempre avuto solo ruoli da capo allenatore. Ha iniziato alla guida di Erie Community College nel 1978 e da allora è sempre stato head coach. È arrivato in Division II chiamato da suo zio Tommy a Le Moyne, cosa che ai tempi aveva fatto mugugnare i tifosi che parlavano di nepotismo e favoritismi.
Alla conferenza di presentazione Beilein aveva spiegato con voce pacata della “pazienza e del lavoro che passo dopo passo aiutano a conseguire i risultati“. Lo zio aveva ascoltato tutto il discorso fremendo e alla fine aveva chiamato il nipote da parte: “Ehi John senti, ok pazienza e lavoro, ma io ti ho portato qui per vincere“. John aveva sorriso. Poi, dopo i sorrisi, ha vinto sul campo (coach of the year 1988) scacciando le malelingue e anche le paure dello zio. Anche la scuola sembra aver imparato la lezione e così oggi il capo allenatore della squadra di basket di Le Moyne è Patrick Beilein, figlio di John.
Il papà John con Le Moyne è andato ben oltre le aspettative, finendo nel mirino della Division I. Prima tappa Canisius (dove anni prima Beilein aveva già cercato di diventare head coach, scartato). Questa volta le credenziali erano diverse, ma non troppo. Beilein veniva dalla Division II e nel college a nord di Buffalo lo guardavano con scetticismo. Lui, proveniente da una numerosa famiglia di New York, ha risposto di nuovo sul campo portando una squadra arrivata ultima nella stagione 91-92 a chiudere due anni dopo imbattuta nella regular season della Maac (15-0, mai più successo) e a qualificarsi al Torneo del 1996 dopo 40 anni di assenza. Ha lasciato Canisius la stagione successiva diretto a West Virginia. Dopo la sua partenza il college non si è mai più qualificato al Torneo.
Dopo i Mountaineers è arrivata Michigan, che sembra proprio dover essere l’ultima tappa della sua carriera, la sua casa, la squadra che ha allenato per più tempo e nella quale lascerà i ricordi più forti. A proposito di ricordi, ce n’è uno che è rimasto stampato nella mente del coach e che lo ha cambiato nel profondo.
L’incidente aereo
L’8 marzo 2017, alla vigilia del Torneo della Big Ten e della prima sfida contro Illinois, l’aereo su cui si trovavano Beilein con la famiglia, i giocatori e persino la banda della scuola, ha cercato di decollare in mezzo a venti fortissimi. Mentre stava facendo salire il velivolo, il pilota si è accorto che le correnti erano troppo forti e si rischiava la tragedia, ma ormai aveva iniziato le procedure e, nel tentativo di evitare un disastro, ha rischiato di causarne un altro. L’aereo non si è alzato ma ha percorso 400 metri fuori dalla pista, fermandosi nel nulla dopo aver abbattuto le recinzioni dell’aereporto.
Pochi minuti che sembrano un’eternità. Il coach e la moglie sono saltati fuori da una delle porte dell’aereo ma, mentre stavano correndo per allontanarsi dal rischio di esplosione, Beilein si è accorto che uno scivolo di gomma non funzionava e non permetteva ai passeggeri, compresi i suoi giocatori, di abbandonare l’aeroplano. E così, come in un film, l’allenatore è tornato indietro tenendo da fuori lo scivolo e permettendo l’evacuazione. Il commento nei giorni successivi, assediato dai reporter che lo incalzavano, non era manco quotato: “L’avrebbe fatto chiunque“.
Quell’incidente però ha cambiato la vita del coach-che-ama-avere-tutto-sotto-controllo. Sono cambiati i pensieri, è cambiata la prospettiva. Il giorno dopo lo schianto si disputava la gara contro Illinois. Beilein di solito tiene riunioni pre-partita molto tecniche focalizzate sugli elementi da tenere a mente. In quell’occasione ha guardato i suoi ragazzi dicendo: “Qual è la storia che vogliamo scrivere adesso? Cosa avete intenzione di raccontare ai vostri figli e ai vostri nipoti?“. Non serviva molto altro. Michigan era testa di serie n. 8 e ha battuto prima Illinois, poi la testa di serie n. 1 Purdue, poi la n. 4 Minnesota e in finale la n. 2 Wisconsin vincendo i playoff della Big Ten e qualificandosi per il Torneo, perdendo alle Sweet 16 di 1 punto contro Oregon che poi si sarebbe qualificata alle F4.
Beilein a volte sembra magico. Ma d’altronde proviene da una famiglia i cui membri raccontano orgogliosi di essere portatori sani del gene-che-non-vuole-perdere (John Beilein and ‘hate-to-lose gene’ of the Nilands). È cresciuto con tanti fratelli e sorelle con un canestro in cortile, dove si tenevano tornei infiniti cui partecipavano tutti, vicini compresi. Anche la mamma di John, quando poteva, scendeva in campo per ricevere in post basso. Non è difficile capire come mai il coach di Michigan sia una delle menti più brillanti della pallacanestro collegiale. Quello che è davvero cambiato dopo l’incidente è che l’allenatore ha iniziato a trasmettere anche ai suoi ragazzi che tipo di persona è. Ha iniziato a godersi di più la vita, a sorridere e scherzare di più anche in campo.
“Cacciate Beilein”
Probabilmente anche per questo Beilein è riuscito ad affrontare con serenità l’inizio della scorsa stagione e le critiche. Sì, le critiche. Cattive, ingiuste, fuori luogo. Perché a volte non c’è nemico peggiore di quello che hai in casa: i tifosi. Si fa in fretta a dimenticare che il coach di NY ha rimesso Michigan sulla mappa del basket che conta. L’anno scorso i Wolverines hanno iniziato la Big Ten con qualche incertezza, perdendo contro Ohio State, poi in casa di 1 punto contro Purdue e poi subendo 20 punti a Nebraska. Record 6-4 e posizione ai piani bassi della classifica. I tifosi? Alla radio, o su Twitter, qualcuno chiedeva il licenziamento dell’allenatore. Sembra impossibile o paradossale, ma è così.
Molti di quelli che avevano scritto, lasciando nome e cognome, sono stati intervistati alla vigilia della Final Four e si sono pubblicamente cosparsi il capo di cenere. Una cosa molto americana, in Italia probabilmente avrebbero rincarato la dose convinti comunque di avere ragione. Le critiche però a dicembre e gennaio c’erano eccome, ingiuste ma c’erano. Beilein ha risposto come ha sempre fatto, sul campo. Ha vinto 14 partite consecutive, ha conquistato il torneo della Big Ten ed è arrivato in finale al Torneo Ncaa. Ora un altro giocatore semi-sconosciuto tre anni fa, il tedesco Moritz Wagner, è pronto per andare nella NBA. Proprio in questi giorni a Michigan sono al lavoro per un’estensione del suo contratto. “Vogliamo che chiuda la sua carriera qua, non deve allenare da nessun’altra parte“. Critiche spazzate via, puro stile Beilein.