L’ossessione per la vittoria è uno dei topos principali della narrazione sportiva. Da Michael Jordan a LeBron James, è come se il successo sia possibile solo se diventa il mantra della propria vita. Evan Mobley quando va in campo suggerisce invece delle sensazioni di segno esattamente opposto.
Con un fisico da bastoncino che non dovrebbe appartenere ad un campo da basket, Mobley gioca con una smorfia insofferente e insoddisfatta, come se tutto quello che facesse sul parquet gli venisse male. È l’esatto contrario. in realtà. perché il centro di USC è uno dei talenti più puri di quest’annata. E pensare che, da piccolo, neanche gli piaceva il basket.
Un giocatore speciale per USC
L’arrivo di Mobley in California ricalca un percorso di reclutamento battuto non di rado dagli allenatori Ncaa, ossia ingaggiare genitori, famigliari o tutori legali nel proprio staff (di recente ne abbiamo parlato con Charles Bassey a WKU). È in questa maniera che coach Andy Enfield ha fatto il colpaccio a USC. Con Eric Mobley inserito nello staff al posto di Tony Bland (quest’ultimo uscito di scena dopo gli scandali sollevati dalla FBI), i Trojans si sono assicurati dei gran bei giocatori passati per le sue mani ai Compton Magic – Onyeka Okongwu e i figli Evan e Isaiah – togliendo così da sotto il naso di UCLA una ghiottissima base di recruiting (Johnny Juzang è arrivato ai Bruins solo via transfer da Kentucky).
Le prime cinque partite Ncaa di Evan Mobley hanno dimostrato perché, per USC, ne è valsa la pena assumere il padre: ventelli, doppie doppie, stoppate, triple. E una serie di giocate che ti fanno alzare dalla sedia, perché non te le aspetteresti da un corpo del genere, per due motivi. Il primo è l’incredibile coordinazione montata su un corpo lunghissimo (210 cm d’altezza e 230 cm di wingspan) che dà una pennellata di naturalezza ad ogni suo movimento.
Il secondo, è la potenza di alcune sue giocate in post che sono in aperta contraddizione con il corpo (93 kg) e con la leggerezza con cui gioca.
La coordinazione lo rende un pericolo a tutto tondo: può attaccare il ferro dal palleggio (1), fermarsi di colpo e tirare un semi gancio destro (opzione preferita) incontestabile (2, 3), può attaccare in post come un centro classico, avvitarsi sotto al difensore per concludere di fino (4), di potenza (5), in fadeaway (6), raccogliere un rimbalzo (7) o sparare una tripla (8).
Riguardo la dimensione da tiratore, a volte si muove in maniera leggera e impercettibile, quasi a nascondersi, per liberarsi sul lato debole. Però Evan Mobley sa essere stealth anche in difesa quando va a stoppare in maniera inesorabile un tiro che sembrava fatto.
La mobilità è ciò che lo rende speciale, ciò che gli permette a volte di marcare un giocatore e staccarsi all’ultimo secondo per andare in aiuto. La sua presenza rende la retroguardia di USC potenzialmente di élite: concede il 36.2% da due punti (#4 per KenPom) e molto del merito del 14.1 di Block Rate è suo.
Ci ritroviamo dunque un lungo capace già adesso, con questo fisico, di fare giocate da centro classico unite a un’agilità fuori dal comune e che lo rende molto appetibile per la Nba.
Una completezza disarmante, anche perché Mobley ha pure intelligenza, capacità di lettura e di passaggio che regalano un’altra dimensione al proprio gioco. I raddoppi mandati dal lato debole vengono elusi con grandissima precisione e anche quando attacca dal palleggio riesce a leggere i movimenti dei difensori.
Amori a scoppio ritardato e paragoni pesanti
Papà Eric ha conosciuto sua moglie grazie alla pallacanestro, ha allenato entrambi i figli, li ha svezzati con VHS di vecchie partite, cresciuti nel campetto del giardino di casa e pure allenati in AAU. Però a un certo punto si era dovuto chiedere se suo figlio Evan, allora adolescente, desiderasse realmente giocare a basket, dato che non sembrava divertirsi in campo.
Aveva provato anche a introdurlo alla musica, ma senza successo. Poco male, perché ad ogni allenamento Evan dimostrava una superiorità così lampante che la passione per la palla a spicchi ha finito per accendersi comunque. Settimana dopo settimana, il suo allenatore in high school doveva raccogliere la mascella da terra osservando i vistosi miglioramenti di Mobley, tanto da paragonarlo a Mozart per la facilità con cui faceva cose difficili.
Evan Mobley è un leader silenzioso per indole. E chi parla di lui, lo fa spesso scomodando paragoni illustri. Uno dei suoi attuali coach a USC, Jason Hart, l’ha definito nella sostanza un giocatore con l’impatto di Anthony Davis e la mentalità di Tim Duncan, aggiungendo proprio uno zinzino di pressione a quelle spalle gracilissime pressate già dal fondatore dei Compton Magic, Etop Udo-Ema, il quale vede in lui un talento generazionale con lampi di Giannis Antetokounmpo e Kevin Durant. Insomma, Evan non parla tanto, ma chi gli sta intorno lo fa proprio senza freni.
Al di là dei paragoni altisonanti – che però rendono l’idea sul suo status di prospetto – il lavoro fatto da tutto lo staff dei Compton Magic è stato cruciale per la sua crescita. Da subito hanno lavorato con la palla in mano, sul tiro da tre e sull’agilità, anche a costo di tralasciare lo sviluppo fisico. Nel suo gioco sembra mancare giusto più solidità sul piano fisico per far saltare il tappo del suo potenziale. Quando è pressato e raddoppiato, la precisione delle sue letture cala, come se si disconnettesse dal resto della squadra.
Al momento pare proprio lui il miglior lungo (e nemmeno di poco) della prossima classe di Draft, tanto da poter contendere la palma di migliore in assoluto a un altro talento speciale (e anche ultra completo) come Cade Cunningham, per non parlare di prospetti intriganti come Jalen Green.
Evan Mobley non sembra troppo ossessionato da ciò. Quand’è così, la cosa è preoccupante. Per gli altri, però.